Mimmo Ciavarelli

 

Rubrica di Psicologia

 

  

13. La Gestalt crea problemi

 

Metalogo gestaltico

ovvero

"Intervista dalla sedia calda"

 

Le Interviste dalla sedia calda sono metaloghi tratti da GESTALT FOOD, un corso audiovisivo di approccio alla Gestalt Therapy, pubblicato in 24 puntate sul mio canale Youtube https://www.youtube.com/channel/UCqze4xK5bp7ycfRUC8yWbjQ 

 

Spesso, all’inizio di una psicoterapia, ci si chiede qual è il problema e come risolverlo. Se ho imparato un po’ a conoscere la Gestalt, credo che anche su questo l’approccio sarà diverso. E’ così? 

Stai facendo progressi e hai intuito un aspetto importante della filosofia gestaltica: noi non risolviamo problemi, ma li creiamo.

Anche se tu dici che faccio progressi, questa cosa mi sorprende non poco. Stai dicendo che lo scopo della Gestalt è aumentare il disagio delle persone?

Aspetta. Non correre a conclusioni affrettate. Non tutti i problemi hanno la stessa natura, e neanche il disagio che li accompagna. Inoltre, tutti i problemi che risolviamo, creano inevitabilmente una serie di altri problemi da affrontare, in una catena infinita. Fintanto che siamo in questa dinamica, passiamo da un disagio ad un sollievo, in una respirazione continua tra problema e soluzione.

E dunque? Perché non aiutare qualcuno che lo chiede, a risolvere il suo problema?

Perché, come ti dicevo, i problemi non sono tutti uguali. Nessuno porta in terapia, purtroppo, problemi risolvibili. Non è questo il luogo dove si approntano soluzioni per veri problemi.

E allora, se non sono veri problemi, cosa sono? Perché rivolgersi alla terapia per risolverli?

Ci si rivolge alla terapia per alleviare il dolore che provoca la loro esistenza, non per risolverli. Una fobia, una depressione, una paranoia, un delirio persino, vuole sollievo, non soluzione. Ogni volta che provassi a suggerirne una, mi sarebbe respinta come impossibile, per le ragioni più varie. Alla fine, sarei costretto a capire che quel problema è la soluzione di tante altre impossibilità, è l’equilibrio perfetto che un organismo ha creato, come soluzione ai suoi veri problemi, che così rimangono bloccati e insoluti.

Comincio a capire. Il problema con cui si va in terapia sarebbe il tappo che impedisce la soluzione dei problemi veri?

E’ così.

Allora perché dici che il compito della terapia è creare problemi?

Perché il vero problema, di chi viene in terapia, è la credenza che esistono problemi risolvibili, cioè problemi le cui soluzioni non contengano, contemporaneamente, danni altrettanto gravi, a breve o lungo termine, cioè altri problemi. Che altro potremmo fare se non aiutarli sinceramente ad avere veri problemi da affrontare, accettando, nella soluzione, sia il vantaggio che il danno?

Ho capito la posizione della Gestalt. Mi dici come fai, nella pratica a creare problemi?

In tutti i modi possibili: suggerendoli, lì dove il paziente non li evidenzia; complicandoli, lì dove presenti; evidenziando sempre i vantaggi di una soluzione, lì dove lui ne vede i danni e i danni, dove ne intravede i vantaggi, compresi quelli di non avere mai soluzioni; circondando il paziente di problemi e di soluzioni, sino a fagli cominciare a gustare l’arte del paradosso, e con essa il sollievo e il conforto che dà vedere la realtà col suo volto enigmatico, ma benevolo, dirci che, comunque, tutto può funzionare, anche quando non funziona.

Mi piace quel che dici, mi conforta, ma i problemi restano e noi dobbiamo affrontarli.

Quali problemi?

Ok grazie

Grazie a te.

Un inchino

 

 

 

 

 

 

12. La Gestalt è scrupoloso rifiuto di curare 

 

Metalogo gestaltico

ovvero

"Intervista dalla sedia calda"

 

Le Interviste dalla sedia calda sono metaloghi tratti da GESTALT FOOD, un corso audiovisivo di approccio alla Gestalt Therapy, pubblicato in 24 puntate sul mio canale Youtube https://www.youtube.com/channel/UCqze4xK5bp7ycfRUC8yWbjQ

 

Oggi, parliamo di terapia? La Gestalt come affronta i disturbi mentali?

Rifiutando, scupolosamente, di curarli.

Ma come può, una psicoterapia, rifiutarsi di curare?

Lo so, sembra una contraddizione. Tuttavia, l’unica cura possibile per questi disagi, consiste, proprio, nel non considerarli malattie.

Mi confondi. Come dovremmo considerarli, allora?

Sofferenze caratteriali.

Cioè?

Conseguenze di ciò che siamo e di ciò che vorremmo essere.

Quali sono le conseguenze di quel che siamo e di quel che vorremmo essere?

Quel che siamo è espressione dei nostri limiti; quel che vorremmo essere, dei nostri desideri: la strategia personale per tentare di superare il dolore di questo conflitto, rappresenta la nostra originale struttura caratteriale. Purtroppo, qualunque sia questa strategia, il suo destino sarà di produrre solo ulteriore dolore, certamente diverso, ma non meno frustrante di quello insito nel conflitto stesso.

Mi sembra che tu dica che, evitare il dolore della realtà, ne produca un altro non minore. Ci fai un esempio?

Si è così. Immaginiamo, come accade fisiologicamente in certe età della vita, che una limitazione fisica o semplicemente l’inesperienza, venga mal sopportata o considerata un’offesa alla propria immagine, cioè a quel che desidero essere, ma non sono. Quante strategie posso attuare per risolvere il mio problema, senza aumentare la vergogna? Posso andare dal semplice evitamento, alla recitazione di un personaggio, oppure deprimermi, sino al delirio di persecuzione o megalomanico. Come si vede, tutte le soluzioni caratteriali spostano, ma non evitano, la sofferenza. La depressione, la scissione, la paranoia sono veri tormenti, per chi ne soffre!

Beh, quelle che descrivi sono però vere e proprie patologie. Perché allora rifiutare di considerarle malattie?

Per me possiamo chiamarle come vogliamo. Non sono i nomi a determinare la sostanza. Ma, per chi ha bisogno di aiuto, si sente malato e chiede una cura, rifiutargliela è essenziale per guarirlo!

Non capisco.

E’ semplice. Dietro la richiesta di cura c’è il desiderio che qualcuno elimini il dolore del conflitto. Quello è la vera malattia per cui si chiede la terapia! Evitare scrupolosamente di curarlo, significa preservare, nel corso degli incontri terapeutici, il dolore intatto e pronto a essere utilizzato per il processo di guarigione.

Di quale guarigione parli, se ti rifiuti di curare proprio il dolore?

Parlo dell’unica guarigione possibile: quella dal desiderio di eliminare la sofferenza. Certamente, durante il processo terapeutico, il dolore superficiale causato dalle strategie caratteriali, può scomparire, ma solo per lasciare spazio a quello profondo ed esistenziale del conflitto tra realtà e desiderio.

Forse comincio a comprendere. Vuoi dire che non esistono uomini malati di dolore e uomini esenti da esso.

Esatto. Kierkegaard diceva che l’umanità si divide in due categorie. Gli uomini che sono disperati e lo sanno e quelli che lo sono altrettanto, ma non lo sanno. Io aggiungo che, questi ultimi in realtà, sanno anche loro di essere disperati, ma pensano di potere non esserlo: provano a cambiare la loro condizione e, non riuscendovi, si considerano malati e chiedono una cura. Gliela daresti?

Beh, messa così, è evidente che no, e comprendo il tuo punto di vista. Tuttavia, non mi rassegno a chiederti qualcosa da fare per questo dolore.

Fai bene, perché qualcosa la psicoterapia, e la Gestalt soprattutto, può fare. Se il conflitto è tra limiti e desiderio, cioè tra quel che sono e quel che vorrei essere, potrei essere aiutato a desiderare sinceramente di essere quel che sono.

Come ti si può convincere?

Non si tratta di convinzioni o di una scelta: desiderare di essere se stessi è un sentimento spontaneo che sorge naturale al risveglio. Diceva il mio Maestro, Barrie Simmons, che in Gestalt non si curano le persone, ma si risvegliano i morti, ad ogni seduta. E per oggi vorrei fermarmi qui.

Con queste ultime affermazioni mi hai acceso più domande di quante hanno trovato risposta.

Allora, è stato un incontro proficuo.

Te ne ringrazio.

Grazie anche a te per avermi seguito.

Un inchino

 

 

 

 

 

 

11. La Gestalt è arte del pentimento 

 

Metalogo gestaltico

ovvero

"Intervista dalla sedia calda"

 

Le Interviste dalla sedia calda sono metaloghi tratti da GESTALT FOOD, un corso audiovisivo di approccio alla Gestalt Therapy, pubblicato in 24 puntate sul mio canale Youtube https://www.youtube.com/channel/UCqze4xK5bp7ycfRUC8yWbjQ

 

  

Ti ho sentito dire che la Gestalt è l’arte del pentimento: è una definizione che mi incuriosisce. Me la spieghi?

Volentieri. Ho sempre pensato che le nevrosi che ci affliggono sono causate dalla nostra fobia del pentimento, perciò, concepisco la terapia come l’arte di pentirsi bene.

Mi sorprendi, perché ho sempre creduto che la terapia aiutasse a liberarsi dei pentimenti, che li considerasse la causa della sofferenza, e non la cura.

Beh, non è così. Kierkegaard, nel suo testo “Aut-aut”, specifica a chiare lettere che il pentimento è parte stessa di tutte le scelte fondamentali della vita. In un passo decisivo, infatti, a questo proposito, dice, più o meno: “fai pure la tua scelta, ponderala bene. Io ti aiuterò a farla, ma sappi, amico mio, che qualunque cosa sceglierai, te ne pentirai”.

Che vuol dire?

Che bisogna liberarsi della falsa credenza che le scelte necessarie della vita dissolvano i dubbi e quelle ben fatte, evitino qualsiasi danno. Le parole di Kierkegaard ci invitano a un contatto pieno con la realtà: sembrano descrivere una seduta gestaltica.

Sono confuso, perché il senso comune vuole che il pentimento sia il segnale di un errore da riparare, se possibile.

Si, lo so, ma non è così. Gli errori non esistono.

Che dici?

Quel che chiamiamo errori sono solo tutto quello che abbiamo saputo fare in quel momento: sono tentativi, non meritano pentimento.

Dunque, cos’è il pentimento?

Il pentimento è il dolore per le ovvie conseguenze delle nostre azioni consapevoli, soprattutto di quelle ben ponderate: altro che errori! E’ la coscienza che c’è sempre un’altra strada che avremmo potuto percorrere con vantaggio. E’ il segno della nostra presa di responsabilità sul male che c’è in ogni bene e del bene che c’è in ogni male.

Ma quando scegliamo con cura, noi bilanciamo sempre bene i vantaggi e gli svantaggi. Così evitiamo il pentimento.

Che sciocchezza. Il senso comune ci dice tutt’altro.

Non capisco.

Il momento della scelta è ovviamente pieno di un sentimento di positività per quel che mi accingo a fare. Ma, quello successivo, il sentimento cambia ed io sono in contatto con la sofferenza della rinuncia. Non importa se quel dolore è minore di quello che avrei vissuto nell’altra scelta: il dolore risparmiato non cancella mai quello che vivo nel presente. Di questo mi pento.

Certo, ma basta ricordarsi dei motivi della scelta per superare lo sconforto del momento e tirare dritto.

E qui nasce la nevrosi.

Perché?

Perché adotto tutti i sistemi a mia disposizione, per negare la realtà che mi fa male, per piegarla alle mie fantasie e sfuggire al dolore del pentimento. Volendo credere che esistano strade buone e strade cattive, potrei interpretare, ad esempio, il pentimento come l’invito a cambiare strada. Per cui, nevroticamente torno sui miei passi, nonostante fossero stati ben valutati, per poi tornare ancora indietro, all’infinito. Oppure, sempre nevroticamente, posso trovare mille argomenti razionali per rendere ingiustificato il dolore del pentimento, o trovare qualcuno che mi assolva, o, ancora, esaltarmi sulla bontà delle mie scelte, o paralizzarmi. Insomma, o cambio la realtà dei fatti, o quella delle mie emozioni interne. Questa io la chiamo fobia del pentimento.

Comincio a capire. E’ una fuga dal dolore.

E’ proprio così. Purtroppo, così facendo, cadiamo dalla padella nella brace, perché, evitare il dolore inevitabile, ci ammala di nevrosi e altera la nostra percezione del mondo e di noi stessi. Ci fa sentire schiacciati, malati o megalomani. Non è un grosso affare.

E allora?

Allora, diventiamo protagonisti, anziché vittime, del pentimento! Non ne facciamo il nostro padrone, seguendolo appena compare, né lo neghiamo, impoverendoci emotivamente e neanche ci consegniamo ai perdoni interessati dei dispensatori di assoluzioni. Viviamolo come il segno più bello che accompagna la vita, la prova che la stiamo vivendo pienamente, nella gioia e nel dolore.

Devo dire che non avevo considerato le cose in questo modo. Ti ringrazio.

Grazie a te. 

Un inchino.

 

 

 

 

 

  

10. La Gestalt è diventare quel che sei

 

Metalogo gestaltico

ovvero

"Intervista dalla sedia calda"

 

Le Interviste dalla sedia calda sono metaloghi tratti da GESTALT FOOD, un corso audiovisivo di approccio alla Gestalt Therapy, pubblicato in 24 puntate sul mio canale Youtube https://www.youtube.com/channel/UCqze4xK5bp7ycfRUC8yWbjQ 

 

 

Oggi, che definizione mi proponi per la Gestalt?

La Gestalt è diventare quel che sei.

Benissimo. Cosa significa?

In Gestalt, non consideriamo la sofferenza psichica una malattia, né pensiamo che esistano uomini sani che possano curare uomini nevrotici. Per noi il disagio esistenziale è solo la conseguenza della difficoltà dell’uomo di essere semplicemente quel che è in un mondo che lo è altrettanto. Cercando continuamente di cambiare quel che non gli piace di sé o di quel che lo circonda, alimenta l’idea di poter piegare la realtà ai suoi desideri. Ma questo sogno, così naturale, così umano, si rivela, nella sua attuazione, un incubo denso di sofferenza. Nessuno può davvero essere un altro, anche se lo sogna, così come il mondo non cambia mai, solo perché lo desidero.

Da questo conflitto esistenziale, nascono i sintomi e i malesseri che la psicologia considera patologie, ma che a ben vedere non sono che la naturale espressione dell’angoscia per il dilemma irrisolto.

Purtroppo, la stessa psicologia che classifica e che promette di curarmi, accettandomi malato, sottolinea che non sono come dovrei, che esiste un uomo sano a cui dovrei somigliare. Allora, anziché svegliarmi dal sogno di perfezione, me ne aggiunge un altro, diventando più uno strumento di normalizzazione, di omologazione sociale, e purtroppo, di tortura, che una cura. Tutto quel che ottiene, se questa sua cura riesce, è un aumento dell’adattamento ipocrita, e del sonno.

E invece, cos’è per la Gestalt la malattia e la guarigione?

La Gestalt considera proprio il tentativo illusorio di miglioramento, la malattia da cui guarire: da qualunque parte venga l’illusione, anche dalla psicologia.

Guarire significa solo svegliarsi dai sogni di cambiamento impossibile, non diventare un altro, anche se migliore. Essere quello che si è, in un mondo che è quel che è, accettare il dolore inevitabile che questa consapevolezza comporta e liberarsi della tortura di non bastarsi mai.

Ma così rinunciamo ad ogni possibilità di cambiamento?

Al contrario. Solo divenendo se stessi si rientra nel flusso della propria spontaneità, solo rinunciando ad interferire con il nostro naturale modo di essere, cominciamo a cambiare veramente, seguendo le circostanze e non un modello o un’idea. I cambiamenti avranno così il sapore delle sorprese non programmate, ovvie e inevitabili: concrete.

Puoi riassumere in una battuta cosa rappresenta, allora, la Gestalt nel panorama della psicologia attuale?

La Gestalt rappresenta il passaggio dalla psicologia del conosci te stesso a quella del diventa te stesso, dal pensare diagnostico, all’essere terapeutico, dal desiderio esistenziale, al cambiamento possibile.

Credo, a questo punto, che bisognerebbe praticarla per capirla meglio.

È esattamente quello che speravo di trasmettere. Il valore di questi assaggi è proprio quello di stimolare il desiderio di comprensione e, comprendere a fondo la Gestalt, significa essenzialmente nutrirsene.

Allora, grazie. Al prossimo assaggio…

Grazie anche a te. 

Un inchino.

 

 

 

 

 

 

9. La Gestalt è sorprendere se stessi ogni volta

 

Metalogo gestaltico

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"Intervista dalla sedia calda"

 

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A volte hai sostenuto che la psicoterapia della Gestalt consiste nel sorprendere se stessi, e ogni volta. Cosa significa? 

Che proprio dalla presunzione di conoscere se stessi che scaturiscono le nostre sofferenze, le delusioni, il dolore e che la cura per tutto questo è scoprire che non sono come immaginavo. Questo, in terapia, deve accadere ogni volta, ad ogni seduta.

Ma così facendo, non perdiamo fiducia nel nostro giudizio?

No, al contrario, impariamo a praticare un giudizio completo, anziché dei pregiudizi. Questo “nuovo giudizio”, ha caratteri molto diversi.

Perdonami, sono in difficoltà. Quello che consideriamo comunemente giudizio, tu lo chiami pregiudizio?

Si, esatto. Ma posso anche chiamarlo fantasia, interpretazione della realtà, classificazione, progettualità, pensiero logico, mente caratteriale.

In che cosa differiscono?

Il giudizio che proponiamo, è mutevole con le circostanze, non è ossessionato dalla coerenza, osserva i fenomeni, senza catalogarli, non teme l’esistenza di più verità contemporaneamente, coglie la complessità, senza semplificarla, ma, soprattutto, è un giudizio curioso che cerca elementi nuovi da aggiungere, cerca le eccezioni, le differenze con qualunque cosa di simile abbia mai incontrato. Ecco, si sorprende!

Ma questo giudizio nuovo, in che modo ci può aiutare?

In molti modi. Innanzitutto, nel momento del bisogno, interrompe tutti i nostri circuiti ripetitivi, le nostre manie, le nostre fissità caratteriali. Poi, ci fornisce sempre nuovi schemi e vie di uscita nelle difficoltà. Soprattutto, ci da modo di vederci in modo sempre nuovo.

Se ricordo bene, una volta, l’hai chiamato “mente di principiante”.

Si. Solo un principiante è in grado di vedere con sorpresa tutto quello che incontra.

Ma noi, non siamo più da tempo, principianti nel mondo e con noi stessi. Li conosciamo bene ormai.

Qui ti sbagli di grosso! Non conosciamo il mondo o noi stessi, li abbiamo solo catalogati; da tempo, li abbiamo classificati, interpretati, caratterizzati. Continuiamo a pensarli come se fossero concetti e non più cose vive e mutevoli. Acquistando la capacità di orientarci e di progettare, abbiamo perso il contatto pieno con la realtà concreta. Non ci sorprendiamo più.

Certo. Cosa c’è di sbagliato in questo?

Nulla. Solo che ne dobbiamo accettare le conseguenze. Il nostro pensiero, la coscienza, se vuoi, oltre a darci vantaggi innegabili, ci getta anche in una disperazione che altre forme di vita non conoscono. Tutte queste sofferenze, che chiamiamo nevrosi, sono generate nel pensiero e sono dovute alle semplificazioni con cui sostituiamo la realtà. Il mondo lo pensiamo più che viverlo.

Come possiamo allora curarle?

Vincendo la pigrizia.

Non capisco.

Di solito non usiamo tutte le nostre potenzialità di pensiero. Così facendo, nel momento della difficoltà, spesso siamo incapaci di usare risorse che non abbiamo allenato, non sappiamo più fare quel che dovremmo fare.

Cosa?

Pensare diversamente. Ogni circostanza, vuole il suo modo.

E qual è il modo alternativo? La mente di principiante?

Vedo che cominci a comprendere. Se la semplificazione produce sofferenza, la complicazione ne è la cura. Non sapere più il mondo, non conoscere più se stessi, non avere più un carattere e doverlo scoprire di nuovo, aver necessità di sorprendersi, ci fornisce nuove e inattese prospettive, oltre a dissolvere le angosce presenti.

Comincio a intuire cosa vuoi dire e anche quale dovrebbe essere il compito di una psicoterapia, per lo meno, cosa si propone la Gestalt. Tuttavia, c’è una cosa che ancora non ho afferrato.

Cosa?

All’inizio del nostro incontro dici che la sorpresa in terapia, deve accadere ogni volta, a ogni seduta. Perché, non posso farne esperienza e trattenere le nuove certezze?

Non si può. Le due forme di pensiero, se vuoi i due di stati di coscienza, non sono confluenti. Sono funzioni diverse dell’organismo, due fasi di respiro dell’attenzione. Tutto quel che siamo in grado, ragionevolmente, di fare è apprendere che è possibile respirare tra l’uno e l’altro e che si può imparare a farlo.

Beh. Questo apre nuove questioni sulle quali avrei ancora tante domande, ma per ora preferisco, come dici tu, cercare anche di comprendere, quel che ho capito.

Saggia idea.

Grazie

Grazie, anche a te. 

Un inchino.

 

 

 

 

 

 

8. La Gestalt è pratica del paradosso

 

Metalogo gestaltico

ovvero

"Intervista dalla sedia calda"

 

Le Interviste dalla sedia calda sono metaloghi tratti da GESTALT FOOD, un corso audiovisivo di approccio alla Gestalt Therapy, pubblicato in 24 puntate sul mio canale Youtube https://www.youtube.com/channel/UCqze4xK5bp7ycfRUC8yWbjQ

 

  

Spesso sostieni che la psicoterapia della Gestalt è pratica del paradosso. Ci dici perché?

Secondo la visione gestaltica, la struttura della realtà è paradossale e ogni disagio esistenziale deriverebbe dal non riuscire a sopportare questa verità. La cura, che la Gestalt propone per queste sofferenze, consiste nell’imparare a praticare il paradosso.

È un’affermazione forte. Come può la realtà essere paradossale?

Infatti, non lo è. E’ solo la nostra mente che la percepisce tale.

Allora è questa la verità che dovremmo sopportare? Ci dai degli esempi?

Certo. Quando osserviamo un fenomeno, noi cerchiamo di capirlo, più che viverlo. Se un amico ha con noi un certo comportamento, vogliamo prima sapere cosa significa e a cosa ci porterà. In base alla nostra esperienza, diremo che è un comportamento ostile o benevolo e che ci porterà del male o del bene. Purtroppo, queste conclusioni, non sono reali, sono solo vere: sono solo un’interpretazione dei fatti. Appena cercassimo di giudicarli con maggior profondità, accadrebbe che la nostra visione delle cose dovrebbe necessariamente mutare: quel che, superficialmente, sembrava buono, si può rivelare profondamente malvagio mentre, quel che appariva, a colpo d’occhio, una disgrazia, potrebbe diventare, a ben vedere, una risorsa. Inoltre, molte sfumature che ci sembravano trascurabili, a un esame più attento, diventerebbero essenziali per suggerire altre, inattese, interpretazioni. La faccenda, dunque, si complicherebbe e diverrebbe facilmente sorgente di paradossi: ogni cosa sarebbe vera e falsa a seconda di “come” venisse esaminata. Questo può essere insopportabile: preferiamo abitare in un mondo superficiale che ci illudiamo di poter decifrare, anche se pieno di delusioni e sofferenze inaspettate, piuttosto che vivere in un mondo troppo complesso e mutevole, per essere interpretato e previsto; un mondo, che potrebbe solo essere vissuto: e vivere, può essere veramente spaventoso. Tuttavia, c’è una verità ancor più scomoda da sopportare.

Quale?

Noi non siamo quel che crediamo di essere ed è soprattutto da questa illusione che dovremmo guarire.

In che senso crediamo di essere altro da quello che siamo?

In molti modi. Spesso lavoriamo di fantasia, o mentiamo, per abbellire quel che non ci piace di noi, convincendocene un po’. Altre volte, recitiamo un ruolo che ci gratifica e ci identifichiamo con esso; oppure, prestiamo fede a ciò che pensano gli altri di noi. Ora, però, sto dicendo un’altra cosa. Nell’osservarci, anche applicando tutta l’onestà di cui siamo capaci, non possiamo fare a meno di dare un senso, a ciò che conosciamo di noi, alle nostre caratteristiche. Purtroppo, tutto quello che ne ricaveremo, sarà una classificazione: qualcosa di vero, ma non di reale.

Mi sembra che tu faccia una differenza tra reale e vero

Certo. Vero è tutto ciò che riusciamo a classificare, applicando correttamente le regole della logica alla realtà: ne è dunque un’interpretazione. Reale è, invece, ciò che esiste. Ecco perché, la verità è molteplice (perché molti sono i modi di far “tornare i conti”), mentre la realtà è sempre una. Inoltre, nessuna verità contiene tutta la realtà, mentre la realtà contiene tutte le verità possibili. Infine, ogni verità, per sua natura, si considera unica, e chiama paradossale l’esistenza contemporanea delle altre. Ma è solo un rifiuto di accettare quel che esiste, in nome di quel che dovrebbe essere.

Come faciliti col tuo lavoro il superamento della verità, in nome della realtà di se stessi e del mondo?

Cerco di alimentare i paradossi, perché credo che da essi venga la cura delle sofferenze del pensiero. Nella maggior parte dei casi, i nostri modi di ragionare cercano, invece, di evitarli, fuggendo le contraddizioni. Così, semplifichiamo, generalizziamo, cataloghiamo, smussando le differenze e trascurando le eccezioni. I nostri giudizi conservano, così, la coerenza, ma diventano approssimativi: la verità è salva, ma la realtà è mutilata e, da questa cecità, non possiamo aspettarci niente di buono. Al contrario, in terapia, cerco di accettare i paradossi, spesso di provocarli, cercarli, produrli, per indurre le persone ad abituarsi a nuotare in acque, sempre più ampie, e con sempre minori appoggi. Inoltre, cerco io stesso di praticare il paradosso, per dare esempi di “un’unità di vita”, esperienze indivisibili, non giudicabili, nuclei di realtà con cui entrare in contatto per comprenderle, più che pensarle per capirle. Voglio salvare l’integrità della realtà, non le verità del pensiero.

Come pratichi il paradosso in terapia? Puoi farci degli esempi?

Naturalmente. Posso, per esempio, seguire un’idea sbagliata, come se fosse giusta, oppure, rifuggire una tecnica efficace e sperimentata, in nome di un’incerta e nuova, o, ancora, occuparmi di me, piuttosto che del mio paziente. Insomma, cerco dare dignità di strada a ogni direzione che si possa concepire, sgombrando il campo dalla credenza che ci siano cose che possano funzionare e altre no.

Ma così non si procede con confusione e pericolosamente?

No, affatto. La Gestalt non è eclettismo confuso: quello sì che sarebbe pericoloso. E’ una reale sperimentazione convinta e coerente che il mondo è tondo ed è uno: qualunque direzione si prenda, si arriva sempre dappertutto.

Non comprendo ogni cosa di quel che dici, ma intuisco che questo modo “gestaltico” di procedere non è semplice da attuare. Le tue parole: “convinto e coerente”, mi fanno capire che si tratta di una disciplina…

Hai ragione: “Tutto è possibile, ma non in qualunque modo”. In un altro assaggio ne parleremo.

Grazie.

Grazie a te.

Un inchino.

 

 

 

 

 

 

7. La Gestalt è disciplina del qui e ora

 

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La Gestalt considera il presente l’unica dimensione in cui si svolge la psicoterapia. Che significa?

Solo quel che accade nel presente del luogo dove sto, è reale. Quello che chiamiamo passato o futuro, sono solo ricordi o anticipazioni di ciò che è stato o sarà reale, ma non lo è ora. Così come, avere una percezione distorta di quel che ci circonda, è fantasia. I malesseri esistenziali, basati sul rimpianto di ciò che è stato, sulla paura di ciò che sarà o su una scarsa coscienza di dove sto davvero, hanno, inevitabilmente, una sola vera cura: la disciplina del qui e ora.

Ma, scusami, questi ricordi, queste attese o queste fantasie, non avvengono anche loro nel presente? 

Certo.

Allora perché escluderli dallo spazio terapeutico considerandoli non presenti?

Non faccio né l’una, né l’altra cosa. Non escludo i ricordi, le anticipazioni e le fantasie, né li considero passato, futuro, o qualcosa che non stia succedendo veramente qui: mi limito a considerarli “pensieri fatti ora, su qualcosa che non c’è nel presente”. Nessuno può essere davvero in un luogo e in un tempo che non sia questo che sta vivendo. Però, può decidere come starci, distinguendo tra realtà del momento e pensiero fantastico.

Scusami ancora, ma il pensiero fantastico non è anch’esso parte della realtà del momento?

Scherzi? Chiunque osservasse dall’esterno una persona che sta pensando a qualcosa che non c’è, si renderebbe conto immediatamente che presenta tutti i segni fisici del ritiro in se stesso: questa è la sua realtà (!), non i suoi pensieri. Al contrario, un uomo che è in contatto, nella percezione e nel pensiero, con quel che lo circonda, è visibilmente diverso, ha una realtà psicofisica differente.

Allora, in cosa consiste la differenza tra la Gestalt ed altre psicoterapie? A quanto ne so, tutte conoscono la differenza tra pensiero fantastico e realtà del presente.

Certo, le psicoterapie conoscono e considerano le differenze tra queste cose, ma solo la Gestalt prova a praticare il qui e ora, con disciplina.

Cosa vuoi dire?

Che il qui e ora non è, per il terapeuta gestaltico, un concetto di un tempo e di un luogo, ma è uno stato di coscienza, un modo di vivere la realtà di quel momento, una disciplina. In certe antiche tradizioni, viene definito “mente di principiante”. Significa guardare il mondo come se lo si vedesse per la prima volta. E questo è possibile solo quando arretra il pensiero formale, quel pensiero che continuamente fa la spola tra passato e futuro, tra questo e altri luoghi, tra esperienze diverse, per interpretare quel che accade ora. Al suo posto, emerge il pensiero che osserva e si sorprende: il pensiero che vede le novità nelle cose ripetitive, le differenze tra i diversi istanti della realtà che scorre. Un pensiero che non da per scontato nulla e che accompagna l’azione, senza poterla programmare, ma intuendone esteticamente la necessità.

Come può il paziente giovarsi di questo stato di coscienza del terapeuta?

Per contaminazione e per impossibilità di far altro. La pratica del presente è coinvolgente e il rifiuto di accettare una comunicazione diversa è stimolante. Il paziente viene aiutato, dall’esempio e dall’indirizzo, a sperimentare un certo ridimensionamento delle sue forme di pensiero e una valorizzazione della sua capacità di contatto, osservazione e intuito presente. In breve, sperimenta una guarigione immediata dalle sue nevrosi. Non è poco.

Si, non è poco, ma, alla fine della seduta, che ne sarà della guarigione del paziente e dello stato di coscienza del terapeuta?

Cosa ne sarà della tua sazietà, quando avrai di nuovo fame?

Ok. Non mi spingo oltre, mi pare di aver intuito più di quanto abbia capito.

Allora hai compreso.

Grazie

Grazie anche a te. 

Un inchino

 

 

 

 

 

 

6. La Gestalt è una via di evoluzione personale per il terapeuta

 

Metalogo gestaltico

ovvero

"Intervista dalla sedia calda"

 

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La psicoterapia della Gestalt è famosa per il suo originale approccio al disagio esistenziale. Ci dici in cosa consiste?

Veramente, preferirei mostrartelo, ma proverò ugualmente a parlarne, se mi concederai di farlo alla mia maniera.

Cioè?

Ci incontreremo più di una volta e, ad ogni incontro, ti parlerò della Gestalt a partire da uno dei suoi elementi costitutivi. Voglio costruire, insieme a te, tanti percorsi, ciascuno dei quali è intriso di filosofia gestaltica. Potrai così, capire mentre assaggi: come se fossi alla scoperta di un piatto tradizionale, seguendo la suggestione dei suoi ingredienti.

 Va bene, accetto. Da dove cominciamo?

 Da una definizione della Gestalt.

 Quale?

La Gestalt è una via di evoluzione personale per il terapeuta.

Ma non dovrebbe esserlo per il paziente?

Certo: come in ogni altra psicoterapia, l’evoluzione del paziente è inevitabile, se l’incontro funziona. Tuttavia, noi gestaltisti, abbiamo una diversa concezione del ruolo del terapeuta e della sua professionalità.

 Cioè?

 Pensiamo che un terapeuta sia professionale solo quando riesce a utilizzare l’incontro terapeutico e il contatto col paziente per la sua propria crescita personale, usandolo come palestra per esercitar un’arte difficile: convivere pienamente, con i propri limiti, senza cedere alla tentazione di giustificarli o di nasconderli, con l’onestà di essere solo quel che si è, momento per momento, nel qui ed ora dell’incontro, senza rinvii o dietrologie, assumendo il peso dei propri conflitti e le responsabilità che comportano.

Stai descrivendo una posizione esistenziale di presenza sincera e consapevole. Perché parli di “esercizio”, come se il terapeuta non fosse “professionalmente” ancora in possesso di questa capacità.

Allora non mi ascolti con attenzione. Non ho detto che la professionalità consiste nell’elargire qualcosa che il professionista possiede, ma nel suo tentativo onesto di esprimere questa posizione, questo stato di coscienza, nonostante non ne sia pienamente capace: questo suo continuo tentativo di crescere, di svilupparsi, di evolvere è professionale, forse non perfetto, ma impeccabile!

Perché dici che questa posizione esistenziale è un tentativo di evoluzione? Mi sembra solo un’ammissione, magari lodevole, o, come dici tu, onesta, di un’incapacità.

 Perché l’unica maturazione che la Gestalt concepisce, è quella di saper vivere con se stessi e col mondo, qui e ora. Senza fughe o nascondimenti, diventare continuamente, se stessi: proprio l’incompleto e limitato essere umano che si è, in un mondo che è quel che è, in un tempo che scorre continuamente e cambia le circostanze, in un eterno presente.

Perché dici che la maturazione consiste nel diventare “continuamente” se stessi? Non si può diventarlo una volta per sempre?

 No. Questo è la vera difficoltà. Essere se stessi non è uno stato, ma una possibilità, da rinnovare ogni volta. Ma, non dovrebbe essere un concetto difficile o nuovo per te: pensa a tutti gli sforzi per mantenere la nostra casa in ordine. Diresti mai che questo ordine può essere mantenuto senza rinnovarlo continuamente? Certo, nel farlo ripetutamente, si può acquisire una certa abilità, precisione, mai, perfezione, ma siamo costretti a rinnovarlo continuamente e seguendo le circostanze che mutano e ci rendono sempre un po’ incapaci e maldestri.

Ora capisco, e mi si aprono molti interrogativi. Tuttavia, voglio tornare alla professionalità. Alla luce di quel che hai detto, mi sembra che tu la consideri come il tentativo di maturare del terapeuta, approfittando del “contesto terapeutico”. Perché questo particolare contesto dovrebbe facilitarlo?

Lo spazio terapeutico che un professionista concede alla sua crescita è enormemente più ampio di quello che i suoi pazienti hanno a disposizione: decine di ore alla settimana, contro una o due. La terapia si presta bene a questo esercizio di crescita, perché è un luogo protetto e consono per occuparsi di se stessi e del proprio profondo. Inoltre, siccome i tentativi di maturazione sono estremamente contagiosi, la gratitudine che viene dal proprio paziente, finisce per creare un clima di grande stimolo, per proseguire nei tentativi. Infine, è l’unico modo che un terapeuta conosce per vivere del suo lavoro e simultaneamente maturare.

E con questo, veniamo all’altro lato della questione. Se la professionalità consiste, per la Gestalt, in una via di evoluzione personale del terapeuta, il ruolo e il compito del terapeuta nei confronti di un paziente, cosa diventa per la Gestalt? 

E’ semplice. Siccome non crediamo che esista una malattia mentale da cui guarire e dei dottori che possano curarla, riteniamo che il disagio esistenziale sia solo un difetto di maturazione e che proprio quest’ultima sia la cura per ogni nevrosi. Il ruolo del terapeuta diventa così quello di incarnare il processo di maturazione e il suo compito, quello di favorirlo nel paziente: con l’esempio e lo stimolo.

 Sono affermazioni forti, ma condivisibili, nella loro evidenza. Mi spiegIl ruolo del paziente mi sembra, in questo contesto, piuttosto marginale: in ultima analisi, qualcuno da sfruttare ai propri fini di crescita. 

No. Non è affatto un ruolo marginale, né poco rispettoso della sua umanità. Egli è un uomo che soffre, come me, e lo rispetto talmente tanto che mi rifiuto di accettare la sua maschera di malato che qualcuno può curare; mi rifiuto di alimentare le sue credenze sull’esistenza di uomini guariti che si occupano di disturbati; mi rifiuto di essere complice dei suoi tentativi di non vedere se stesso e il mondo così com’è. La presenza del paziente è essenziale nel processo di maturazione di entrambi e il loro scopo è comune. Mettendo l’accento sul terapeuta, ho solo voluto mettere in risalto la differenza di concezione umanistica che la Gestalt ha, nel panorama della psicologia.

Mi pare che tu ci sia riuscito. Ho compreso che l’originalità della Gestalt è quella di essere una filosofia pratica e una via di evoluzione, ancor prima che una psicoterapia.

E’ così. Ti ringrazio per la tua attenzione.

Grazie a te, per la tua.

Un inchino.

 

 

 

 

 

 

5. La saggezza del dolore. La Gestalt therapy nelle emergenze del trauma 

 

Conferenza di M. Ciavarelli al Centro Reich di Atene nel maggio 2007

 

  

Più che di tecniche o di strategie per affrontare le emergenze di un trauma all’interno di una relazione di aiuto, voglio indicarvi una posizione, una prospettiva; suggerirvi un’estetica, un atteggiamento; proporvi un modo d’essere e una presenza capaci di creare, con chi è in condizioni di profonda sofferenza, un rapporto umano onesto, nutriente ed efficace. La visione gestaltica, infatti, non prevede protocolli di comportamento, ma impone coerenza dell’essere. Cominciamo dunque a rispondere alle domande fondamentali della questione: cos’è, per la Gestalt, la psicoterapia? Cos’è un trauma? Cosa può fare la psicoterapia nelle situazioni traumatiche?

La Gestalt è una psicoterapia che non cura.

 Esistono due modi, molto diversi tra loro, di intendere la psicoterapia, da cui scaturiscono pratiche ed effetti molto diversi.Il primo modo concepisce la psicoterapia come “cura”; la accosta alla medicina e alla psicologia, mutuando da queste conoscenze e atteggiamenti. L’esigenza “clinica” di curare ciò che è malato, incontrandosi con l’esigenza di formulare modelli di funzionamento della psiche, ha creato l’alleanza storica tra le due discipline. Da questo connubio, per nulla naturale, è nata la trasformazione della “sofferenza morale ed esistenziale dell’anima”, in malattia e ha mutato lo psicoterapeuta in “colui che guarisce”, in un “guaritore”. Il secondo modo d’intendere la psicoterapia, quello gestaltico, per intenderci, la vede, invece, come un “prendersi cura” di qualcuno che soffre, condividere e interagire col suo dolore, facendone così una disciplina autonoma che, sollevando il terapeuta dal compito di guarire, normalizzare, raddrizzare, aggiustare, lo rende libero dall’obbligo di mentire circa la sua propria condizione di essere umano altrettanto “non guarito” e “non normalizzato” di chi pretende di guarire e normalizzare. Questo tipo diverso di psicoterapia si occupa della sofferenza umana, non come sintomo di malattia, ma come effetto del nostro contatto con la vita e dei tentativi di evitarne le conseguenze in tutti i modi possibili, fino al punto di crearci false immagini di noi e del mondo, che nel tempo procurano più sofferenze di quelle che evitano. Il primo tipo di sofferenza, quello legato alla nostra stessa esistenza al mondo, è ineliminabile, ma anche necessaria. Il secondo tipo di sofferenza, quella legata ai nostri tentativi di elusione della prima, invece, è evitabile e non necessaria, anzi dannosa. Aiutare qualcuno a liberarsi di quest’ultimo tipo di sofferenza esistenziale, non vuol dire proporgli, in maniera colpevolizzante, obiettivi di cambiamenti impossibili, tanto più che è esattamente quello che lui sta facendo nei suoi tentativi di evitamento, ma aiutarlo, invece, a divenire sempre più ciò che è, nella certezza che accettando l’inevitabile, cioè se stesso, finirà per accedere al patrimonio di forza e di protagonismo nascosto nel suo profondo, che lo condurrà al sollievo tanto cercato. Invitarlo a non fuggire, con la falsificazione o con la tortura dell’automiglioramento impossibile, significherà aiutarlo ad entrare in contatto pieno con se stesso. Un se stesso non statico ma dinamico che, una volta riportato in luce è in grado di evolvere naturalmente e secondo natura, senza il nostro intervento correttivo: “non occorre spingere il fiume, scorre da solo”. Inoltre, va ben compreso che divenire ciò che sono, è un processo ricorsivo e non un evento: continuamente si ripresenta, nel contatto doloroso con la vita, l’alternativa di scegliere di essere me stesso o evitarlo fantasticamente. Continuamente la vita ci impone di ridiventare sempre quel che siamo, se vogliamo dirle un pieno sì. Vivere la professione di psicoterapeuta in questo modo richiede sicuramente esperienza, cultura, conoscenza, saggezza, coraggio, curiosità, senso artistico ed estetico, voglia d’imparare e di scordare quel che ho appreso se questo impedisce la verità del momento, ma soprattutto richiede il desiderio esistenziale di divenire continuamente quel che sono, in un atteggiamento che pone il terapeuta e l’altro nella medesima posizione esistenziale: aiutare l’altro a fare quel che contemporaneamente sto facendo. Questo modo di fare terapia è Gestalt.

Il trauma ovvero la saggezza del dolore

Il trauma è qualunque evento di forte carica fisica o psichica che supera le nostre capacità di assorbirlo e integrarlo con quella che è la nostra esperienza e rappresentazione del mondo. È un evento di forte impatto, con cui la realtà s’impone sorprendendoci e pretende di essere riconsiderata, riconosciuta “altro” da come noi l’abbiamo vissuta, sino a quel momento. Questa brusca e violenta “aggiunta di realtà estranea”, nell’imporsi, c’impone una ristrutturazione altrettanto forte anche del nostro modo d’essere e di stare al mondo. Da quel momento e per sempre, non saremo più gli stessi e, per noi, il mondo non sarà più lo stesso. La stessa follia, che è un evento psichico interiore, si presenta nella sua irruzione, nello stato nascente, come un vero e proprio trauma, con la stessa violenza di un evento esterno. E, nella follia, nella psicosi, è proprio il confine tra esterno e interno che viene messo fuori gioco: in questa con-fusione, non priva di illuminanti intuizioni sull’illusorietà di questi pretesi confini, la violenza sembra giungerci da fuori e vuole essere riconosciuta, apprezzata valorizzata e integrata nel nuovo mondo che si va costituendo sotto la sua stessa spinta. In questa visione, dunque, il trauma non è solo una catastrofe, ma è anche un’opportunità che la vita ci offre per ampliare il nostro modo di essere al mondo; un’opportunità certamente violenta, pericolosa, dolorosa, molto dolorosa e potenzialmente distruttiva. Tuttavia, se affrontata, se c’è un qualche minimo spazio in noi per affrontarla, è anche capace di farci evolvere dalla nostra posizione precedente. Il primo grande trauma della nostra vita è la nascita, paragonabile, per intensità e potenza, all’ultimo evento disastroso con cui usciremo di scena. Nascita e morte sono così legati da uno stesso ineluttabile destino: essere, per noi che li viviamo, un trauma. “Ciò che per il bruco è la fine del mondo, per tutti noi è una farfalla” (Lao Tse). E tutta la vita successiva è costellata di piccoli e grandi traumi che seguono lo stesso schema: morire per nascere. “Soffrire la propria morte e rinascere, non è facile”, recitava il vecchio Fritz Perls, il fondatore della Gestalt therapy. Ogni volta bisogna morire davanti a un trauma, per rinascere diversi, contaminati per sempre dalle scorie radioattive della bomba che ci è esplosa tra le mani. Ma, in genere, si cerca di resistere alla propria morte con ogni mezzo, restando aggrappati all’utero che abbiamo avuto come casa e riparo sino a quel momento. Ma anche quel riparo era solo un’illusione di ricovero e protezione: il trauma è lì per dimostrarcelo! Opponendoci alla morte, impediamo anche la rinascita.

Diventare se stessi: psicoterapia del trauma

Nel continuo processo di diventare ciò che si è, una conseguenza importante è che bisogna lasciare che anche il mondo che conosciamo diventi ciò che è. Infatti, tutto cambia, non perché diventa “altro”, ma perché già lo era, senza che lo sapessimo. La nostra ignoranza, illusione, superficialità, a volte, stupidità, nel rappresentarci la realtà, ci ha fatto da velo e solo nel momento del trauma, essa ci si rivela nella sua essenza più cruda: in quei momenti, la realtà diviene pienamente se stessa. Lo psicoterapeuta accorto può aiutare l’altro nelle due direzioni possibili di rinascita e morte. Può accompagnare la morte del mondo conosciuto e dell’equilibrio psichico su di esso fondato, favorendo la nascita del “nuovo” che contiene il trauma come elemento non eludibile, come sua possibilità naturale, come “un’ovvietà”. È un processo delicato, perché bisogna impedire reazioni troppo precocemente adattative, fughe nella consolazione, nell’illusione, nella giustificazione di ciò che non lo è. Contemporaneamente, il terapeuta può e deve accompagnare la morte dell’individuo che accoglie con dolore estremo il suo disfacimento e che cerca di sottrarsi a questo evento con tutte le sue forze. Ma solo morendo, perdendo l’innocenza che ci faceva credere nel mondo che sognavamo soltanto, noi possiamo rinascere. Possiamo scoprire un noi più capace di vedere e capire il mondo e una realtà più vera che apre nuove possibilità. Anche qui non si tratta di un “nuovo sé” che sta emergendo: questo appare tale solo a occhi ingenui che vogliono crederlo. In realtà, il sé che muore è sempre un “falso sé” con cui abbiamo ricostruito un utero protettivo, dopo la precedente morte e che si oppone, come un diaframma, al contatto pieno col mondo. E ciò che rinasce, più contaminato di realtà del precedente, più complesso , altro non è se non quel che già eravamo senza saperlo e da cui ci difendevamo per salvare l’illusione di mondo-utero. Quindi, favorendo il dolore, la verità e il lutto, essere non un medico, ma una levatrice che favorisca la nascita di una “nuova verità” del mondo e di sé.

Divenire ciò che si è, e lasciare che il mondo lo diventi altrettanto. Un inchino.

 

 

 

 

 

 

4. Un dialogo dimezzato: il doppio è la metà

 

Metalogo gestaltico

 

Metalogo tratto dal mio primo libro di aforismi: "L'ovvio per i giorni alterni". Una raccolta di aforismi che riguardano l'uomo e la vita: schizzi di una visione del mondo dall'ottica della Gestalt therapy. Il metalogo finale si rivolge al lettore, ma anche al doppio che anima molti degli aforismi del testo e che altri non è che l'autore stesso e i suoi tormenti, così spesso irrisolti: lo specchio della natura umana e dei suoi conflitti. La forma dialogica del metalogo viene a configurare una vera e propria "sedia calda" letteraria, in cui questa famosa prassi gestaltica viene resa dialogo scritto e mostrata nella sua struttura viva. Grazie per l'attenzione, Un inchino.

 

 

E allora, hai terminato la lettura?

Certo, e avrei molte cose da chiederti.

Fa pure, sentiti libero, esprimiti, critica. Siamo fuori dal testo e dai ruoli.

Sono contento. Farti da spalla non mi lasciava spazio...

Sulla scena è così… anche io ero costretto nelle tue battute!

Fai la vittima? Con me non attacca! Conosco la tua voglia di protagonismo... Io l'ho solo alimentata...

Ma quale protagonismo?

Non provarti a mentire con me! non puoi, lo sai…

D'accordo, non voglio polemizzare su questioni di poco conto, ti concedo il narcisismo. Ma non avevi domande per me?

Sì.

Comincia pure…

Trovo il tuo testo arrogante, saccente, irritante... Possibile che tu non abbia ombra di dubbio? Ti senti un oracolo? Manchi di umiltà, di autoironia...

Critica prevedibile e fondata, la tua. Ma ricorda Baudelaire, lettore ipocrita, mio simile, fratello... E ricorda pure che ho scelto l’aforisma per parlare di Gestalt.

E dunque?

La forma condensata richiede sinteticità e lo stile assertivo che è funzionale alla comprensione.

Alla comprensione?

Sì, l'aforisma è la chiave, il resto lo fa il lettore, ma deve anche essere guidato, altrimenti si rischia di essere fraintesi. Il tono perentorio, che si fa addirittura arrogante, provocatorio, quando il rischio di fraintendimento è forte, è un ingrediente il cui dosaggio è essenziale alla riuscita.

Ma questo non rischia di allontanare il lettore anziché avvicinarlo?

La più grande iattura per un aforista è essere frainteso: pur di non esserlo ricorrerebbe anche all’omicidio…

Spiegati...

Meglio perdere qualcuno che non essere capito!

Allora perché hai scelto l’aforisma e non il manuale, o il saggio, dove avresti potuto spiegare tutto quello che avevi da dire con cura e con garbo?

Vuoi la verità?

Certo.!

Tutta la scrittura è porcheria. Le persone che escono dal vago per cercar di precisare una qualsiasi cosa di quel che succede nel loro pensiero, sono porci. Tutta la razza dei letterati è porca, specialmente di questi tempi.
Ma cosa dici?

Non lo dico io, l’ha detto Antonin Artaud.

Ma cosa c’entra Artaud?

Non trovi che il suo aforisma sia bello, anche se urticante? Non spiega nulla di quel che afferma e lo dichiara come se fosse ovvio!

E allora?

Non capisci? Neanche io ho voluto spiegare. Se comprendi l’ovvietà ti avvicini all’esperienza reale al di là della sua rappresentazione.

Non capisco ancora.

La Gestalt è prevalentemente un’esperienza che ristruttura, ha difficoltà a essere rappresentata al di fuori del vissuto: è invece facile fraintenderla con una comprensione incompleta. Gli scritti sulla Gestalt che conosciamo, compresi quelli di Perls, spesso risultano, per questa ragione, banali o troppo assurdamente concettuali. Volevo assolutamente evitare l’una e l’altra cosa, mantenendo la curiosità per l’esperienza. Infine volevo far sentire anche un po’ del suo profumo, provocare un po’ di quell’esperienza cui andavo alludendo. Così ho usato l’aforisma come la porta girevole degli alberghi…

Cosa vuoi dire?

La forma urticante dell’aforisma permette di respingere il lettore che vi entra aspettandosi qualcosa di diverso da ciò che ha trovato. Il movimento di uscita è immediato, ma non definitivo. Non è una porta chiusa! Quando vuole, il nostro visitatore può rientrare con la stessa facilità con cui è uscito, per esplorare quello che ormai sa che c'è. Può farlo in maniera salutare tutte le volte che vuole, sentirsi libero fino alla fine. La brevità del testo lo garantisce dalla noia. Tutto è veloce: appena la comprensione non c’è si va via. Quando arriva, si va avanti e così fino alla digestione totale. Attenzione e comprensione sono in salvo. Questo movimento del lettore mi affascina, me lo fa sentire vicino…

E gli altri lettori, quelli perduti?

Avrebbero solo frainteso: il metodo è anche una selezione per stomaci robusti…

Ammetto che non avevo valutato tutti questi risvolti. Forse mi sono arreso troppo presto alla mia irritazione…

Intolleranza, vuoi dire?

Non sono intollerante, sono soltanto…

Ora tu stai mentendo! E neanche tu, con me, puoi. Tutto quello che non è come lo aspetti non lo tolleri. Non lasci esistere il diverso fino a incuriosirtene davvero. Lo ascolti con i tuoi presupposti e se il diverso alza la voce per essere ascoltato davvero, ti irriti. Non lo lasci vivere per quello che è: non lo contatti davvero. Sei intollerante!

Senti chi parla… l’arrogante vuol darmi lezioni?

Certo. La mia è mitezza, più che arroganza: il tuo è orgoglio. Bobbio definiva mitezza il lasciare che l’altro sia quello che è: la mia porta girevole lo permette! La tua “correttezza” è invece una prigione: o dentro o fuori! Le buone maniere innanzitutto…

Vuoi litigare?

No, voglio spiegarti, ma voglio che ascolti.

Sono qui per questo…

Non mi piace il tono che usi… fai dell'ironia?

Sei anche permaloso!

Va avanti. Cos’altro vuoi chiedermi?

C'è un’altra questione di stile che mi lascia perplesso.

Quale?

La posizione che assumi nei riguardi della psicologia… Mi sembri esageratamente critico. La riduci al rango di moda, deridi i suoi sforzi classificandoli come pretese inumane… dubiti persino che tra gli psicologi ci siano dei galantuomini… Sembri arrabbiato col tuo stesso ambiente. Niente di personale in questo, vero?...

Con la tua insinuazione tocchi un tasto che non mi duole. Ammetto che l’orgoglio traboccante è la base del nostro lato oscuro di psicoterapeuti. Lo conosco bene e ti assicuro, ha i suoi tratti teneri, è più ragionevole di quanto sembri e può essere anche delicato. Col tempo, sa anche fermarsi al momento giusto…

Sì, ne parli anche in un aforisma…

Appunto. Non potendo eliminarlo, ci dialogo, non lo nascondo dietro la maschera della correttezza.

Ma torniamo al punto…

Sì, torniamo al punto… perché l’orgoglio non è l’unico motivo della mia posizione. Faresti un torto alla mia intelligenza e alla mia capacità di controllo, di appartenenza sociale… mi daresti del demente se pensassi che un sentimento mi governi al punto da farmi scrivere sotto dettatura qualunque sciocchezza!

Allora cosa ti spinge?

La necessità!

Quale?

Quella di far emergere con chiarezza il senso della “esclusiva differenza” che la Gestalt ha rappresentato nel panorama della psicologia. Sono differenze filosofiche e applicative che segnano un punto di non ritorno evolutivo rispetto allo schema teoria-tecnica, accompagnato da una scelta umanistica e vitalistica radicale. Il tentativo di esplicitarla con un linguaggio psicologico, ne rappresenta drasticamente una “riduzione” e la banalizza. Come tradurre un testo cinese in inglese, con la pretesa di farlo anche in maniera succinta.

Perciò, hai voluto esagerare un po'…

Chiamalo come vuoi: per me è necessità, visto il revisionismo dilagante e quanto a sproposito si parli di Gestalt. Pensa che qualcuno sostiene anche di utilizzare tecniche gestaltiche…

E cosa c'è di male?

Non esistono tecniche gestaltiche! Solo la posizione. Non capire questo è il colmo per chi si definisce gestaltista.

Cosa vuoi fare, moralizzare l’ambiente? Creare liste di proscrizione? Un elenco di purezza? Arrogarti il diritto di dare pagelle?

No… no, nulla del genere. Ognuno è responsabile di quello che è e di quello che fa, non voglio fermare il mondo. Si usi la parola Gestalt come si vuole: non ne ho la proprietà. Mi si confonda pure col successo altrui: non sono invidioso. Purché mi si lasci libero di esprimere il mio pensiero! Se la mia esigenza verrà compresa... ci saremo incontrati.

Ma così ti poni sempre fuori da ogni contesto…

Conosco da tempo la solitudine di questa strada…

Via, non fare l’eroe… o la vittima… ché sono la stessa cosa.

Stavolta hai ragione… sono facezie... andiamo oltre...

Una domanda sulle Scuole di psicoterapia?

Fa pure.

Perché te la prendi tanto con le scuole? Fanno il loro lavoro, qualcuna anche bene. E sono nella legalità.

Appellarsi alla legislazione è l’ultima delle ragioni da addurre per motivarne l'esistenza. È piuttosto un ulteriore motivo di sospetto…

E non è malanimo, il mio, né antipatia preconcetta, ma una necessità.

Ancora necessità?

Qui, la tua ironia è fuori posto: la questione è seria. Per la trasmissione della Gestalt non occorre una scuola, ma una “scuola opportuna”, come vuole la sua storia. Una scuola opportuna è l’antitesi di quelle istituzionalizzate. Ti rammento, a tal proposito, il rifiuto di Perls all’invito di diventare analista formatore della scuola di Washington.

Si, hai citato l’episodio nell’introduzione. Ma come si compensa la mancanza di riconoscimento ufficiale agli allievi che frequentino quella che definisci "una scuola opportuna"?

Non la ritengo una mancanza. In un mondo burocratizzato, dove tutto è reificato, mi sembra più opportuno stimolare l'interesse disinteressato e educare al valore in sé.

Sì, ma così i numeri si riducono, il passaggio diviene esiguo…

Non importano i numeri: la trasmissione è un fatto di cenacoli, piccoli gruppi che crescono assieme. Tutto ciò che è stato trasferito ai grandi numeri si è disperso. Piccolo è giusto, piccolo è vero, piccolo è bello!

Ti stai esaltando?

Mi piace il dibattito... fammi altre domande.

Ho un’altra critica da fare.

È quello che preferisco: basta darti ragione e poi vinco sempre!

Fai un' autocitazione? L’hai detto in un aforisma… che tra l’altro non mi è ancora chiaro.

Prova a rileggerlo dopo, forse lo capirai… ma ora fammi la domanda.

È una cosa un po’ delicata, non vorrei ferirti…

Chi tu? Ma per favore evitami le ipocrisie!

D'accordo. Nel tuo testo citi molte persone, ma, a proposito di Gestalt, quasi non nomini altri che Perls, Simmons e… te. Nostalgie di trinità?

A parte che nell’introduzione faccio tanti altri nomi di gestaltisti degni di questo appellativo, ammetto che riguardo al testo dici il vero. Ho ben vestito i panni dello Spirito Santo.

Forse ritieni che nessun altro sia degno di far parte della genealogia?

Te lo concedo, dato che la genealogia la sto stilando io.

Ma tu sei pazzo!

No. Questo è solo il sentimento, non devi dargli importanza. Il sentimento va seguito solo per poi tradirlo dolcemente. Ogni pazzia contiene una verità preziosa da sviluppare con rigore…

Cosa fai il professore ora?

Siedi calmo e ascolta le ragioni della mia follia.

Non ti irritare se ti parlo ancora di necessità. La prima è nel ribadire, limitandomi a ciò che strettamente conosco, qual è il nucleo essenziale della prassi Gestaltica. Barrie Simmons, con analogo rigore, diceva che la Gestalt era "quella cosa che faceva Perls e che faceva lui". Di altri non faceva menzione. Non era arroganza, la sua, ma precisione. Ciò che è Gestalt è infatti legato alla meravigliosa, essenziale semplicità di esecuzione dell’ultimo Perls, che Simmons sapeva di interpretare. Intorno, invece è accaduto di tutto: dal revisionismo dei primi allievi di un Perls ancora troppo teorico e acerbo, allo spontaneismo postcaliforniano di chi era non ancora maturo, al postrevisionismo spirituale che alla disciplinata semplicità del maestro aggiunse pratiche di ogni tipo, continuando a diluire un patrimonio che consisteva proprio nell’essenzialità dell’incontro. È dissennato dire con chiarezza che esistono lignaggi che si trasmettono? È lecito rifarsi soprattutto a questi quando si vuol essere precisi e trasmettere la sensazione di un’esperienza vissuta più che di un concetto che si conosce? Sono arrogante se chiedo che si parli dell’esperienza Gestalt con cognizione di causa e con i dovuti riferimenti personali che la testimonino come tale? O sono preciso? È ovvio che riconosco il valore di colleghi che stimo, come non nego che dal ceppo originario della Gestalt siano nate personalità notevoli, dotate di tutte le caratteristiche per essere definite gestaltiste autentiche. Posso accomunarli senz’altro ad una genealogia ideale, basata su principi o idee, a una famiglia comune, ma non fanno parte della mia diretta esperienza. Comunicare esperienza ha dunque percorsi diversi dal comunicare idee, teorie, filosofie. Non sono così stupido da ritenermi l’unico sopravvissuto su questa strada!

E allora perché questa scelta di tacere gli altri?

Insisti? Il mio non è un manuale di Gestalt, né un saggio storico sulla materia. E non ho scritto per un intento scientifico, né per aprire dibattiti. Sono altre le sedi in cui puoi trovare notizie, nomi, definizioni e puntualizzazioni. Hai provato a cercare su Internet?

Non fare lo stupido…

Sono serio. Ho solo voluto parlare di Gestalt dall’interno della mia esperienza, della mia storia, del mio lignaggio. Al di fuori di questo, c’è la storia di altri. Perciò, non chiedermi conto di ciò che non poteva esserci nel mio testo. Pretenderesti da un saggista versi poetici? Da un romanziere l'intreccio poliziesco? O una trama interessante dall'elenco telefonico? La mia è stata una scelta necessaria.

La necessità, sta diventando un tormentone!

È perché hai la testa dura.

Continua, mi interessa…

Aggiungo a quanto già detto che non sono mai stato molto soddisfatto di come la Gestalt sia stata tradotta in scrittura. Spesso, anche i suoi grandi interpreti, non sono mai riusciti a renderne l’atmosfera. Per la Gestalt l’esperienza è l’essenza. Il resto è spesso un involucro scialbo, il che è un danno incalcolabile, più del silenzio, perché genera fraintendimento. Per non parlare di quei tentativi di chiarezza che hanno avuto l'effetto di complicare verbosamente la materia, facendone una poltiglia incomprensibile. E che dire dei confronti con altri approcci, dei tentativi di sincretismo e con aggiunta di tecniche estranee in nome di un evoluzionismo concettuale? Fa eccezione la scandalosa autobiografia che Perls scrisse alla fine dei suoi giorni… forse un tentativo di chi aveva abbandonato le spiegazioni formali…

E quindi?

Quindi si deduce che se la Gestalt non è riuscita a esprimersi attraverso i canali della psicologia classica, vorrà pur dire qualcosa.

Cosa?

Che la Gestalt non vi appartiene, magari perché possiede una caratteristica che la rende estranea: magari semplicemente il suo apparato filosofico, così ipertrofico quanto poco visibile, o la sua prassi paradossale.

Dunque?

Dunque bisogna prendere atto che non si può scrivere in prosa quello che è poesia.

Perciò hai scelto l'aforisma?

Sì, perché è una forma in grado di parlare alla mente, al cuore e all’intuito che ne è la sintesi più efficace. Produrre esperienza con la scrittura: era questo il mio intento.

Mi sembra di capire...

Era ora.! Possiamo concludere, dunque, e salutare i nostri lettori?

Certo.

Ma dimenticare di presentarti. Non vuoi dire chi sei?

Uno specchio, uno dei tanti…

Ho dialogato con il mio doppio?

No, con la tua metà. È stato un dialogo dimezzato.

Ma se il doppio è metà, l’intero contiene l’alterno?

Certo. Nell’ultimo giorno, le domande contengono risposte.

 

  

 

 

 

  

 3. La pratica del paradosso

 

  

Un paradosso, dal greco (contro) e (opinione), è un ragionamento che appare contraddittorio, ma che deve essere accettato, oppure un ragionamento che appare corretto, ma che porta ad una contraddizione. Si tratta quindi di:"una conclusione apparentemente inaccettabile, che deriva da premesse apparentemente accettabili per mezzo di un ragionamento apparentemente accettabile".

Molte volte ho indicato il paradosso come uno dei tratti distintivi del pensiero, del linguaggio e della prassi della Gestalt therapy, forse la sua vera trama segreta. Quando parliamo di "vuoto fertile", quando ci muoviamo contro la ragionevolezza delle paure, quando ci affidiamo all’incertezza di un particolare curioso, sfuggendo alla sicurezza di una diagnosi, quando preferiamo la confusione, alla chiarezza, quando scegliamo la superficie e non la profondità, quando ci ostiniamo a cercare il bene nel male o il bello nell’orrido, quando non ci rassegniamo all’evidenza o quando vi rimaniamo irragionevolmente abbarbicati, siamo nel paradosso. Essere nel paradosso però non vuol dire essere originali, anche se lo sembra, non è agire con creatività, anche se ne ha la forma, non significa trasgredire le regole, anche se questo appare, non è operare con metodo, anche se così si evidenzia, né vuol dire indossare un abito o avere un vezzo, anche se nella pratica è così.

 

Essere nel paradosso vuol dire esserci.

 

Troppo spesso però viene scambiato l’esserci con l’essere che non è che pensare di esserci. Lo stesso paradosso, se viene pensato, scompare: diviene solo una figura retorica linguistica, una possibilità alternativa, un’indicazione per completare una visione già consolidata, un gioco enigmistico, una visione ironica, un divertimento di concetti, un confine da non superare, un baratro in cui non cadere, una mera incoerenza, o, nel migliore dei casi, una filosofia dagli esiti interessanti, quanto non un reperto antropologico di certe esotiche culture. I più accorti studiosi, pensandolo ad un livello più profondo, lo hanno persino inquadrato come una conseguenza della struttura logica del pensiero che li produrrebbe nello stesso tentativo di eliminarne le tracce. Ma il paradosso, come l’esserci, pur essendo un modo di pensare e di essere, non è né pensiero né essere così come normalmente si intende.

 

Essere nel paradosso, esserci, vuol dire avere una mente inesperta, da principiante.

 

Avere una mente da principiante  che guarda il mondo come se lo vedesse per la prima volta, che ha scordato tutti i presupposti su cui è cresciuta; una mente curiosa ed avida, che non distingue più ciò che è necessario da ciò che è secondario, che si muove prima di pensare e ha fiducia nel suo muoversi, più che nel suo pensare; una mente emozionata ed emozionante, sfacciata e ingenua, che ha il solo intento di scoprire nell’altro il se stesso che vi è nascosto, altrettanto ingenuo e sfacciato e unirsi a lui per condividerne la solitudine.

 

Essere nel paradosso, esserci, vuol dire organizzarsi sorprese, avventure.

 

Guardo l’uomo che ben conosco, giudico, l’uomo che la mia mente esperta ha già diagnosticato senza appello, l’uomo che il mio carattere non sopporta, l’uomo per il quale provo antipatie motivate da lunghe esperienze di ferimenti e dolori, l’uomo che tanto somiglia a tutti quelli che odio, l’uomo nevrotico, l’uomo stupido, l’uomo superiore, l’infimo e provo a vederlo. Provo ad incuriosirmi con tutto me stesso di lui, provo a perdermi inopinatamente in lui, provo ad arrendermi alla mia stupidità nel fare quel che faccio, arrendermi al pericolo in cui mi caccio da solo, alla follia che per un istante sento in me: sto facendo l’ultima cosa che dovrei fare. E così, se funziona, se non mi ritraggo, se la mia follia dura senza che mi protegga, se corro il rischio di dissolvermi, un istante dopo, solo un piccolo istante dopo, non sarò più, ma ci sarò. Lo guarderò e lo vedrò: oltre quel appariva ai miei occhi interessati e timorosi, ai miei occhi in affitto, già arredati e corredati, ai miei occhi cattivi e falsi, ai miei occhi troppo umani per essere semplicemente umani, ai miei occhi teneri, duri, sfuggenti, troppo spesso chiusi. Lo vedrò così come è, lo vedrò senza emozioni, ma con sentimento: un ben strano sentimento di cui non conosco il nome, un sentimento che avvicina senza dolore e senza piacere, una commozione calma e ferma, la scoperta di un riconoscimento. E vedrò tutto e tutto sarà uno spettacolo nuovo, vasto, infinito, un mondo di cose da esplorare: tu sarai tu ed io sarò io. Tutto sarà il contrario di tutto con semplicità ed ovvietà, il paradosso non sarà più paradossale: l’uomo conterrà finalmente se stesso, tutto se stesso. Tu contemplerai l’unità delle cose che si rispecchia in lui e vedrai te. In quel momento così paradossale, converrà esserci. 

 

Pensiero e realtà

"La chiarezza è la caricatura della realtà, la confusione ne è la maschera, il paradosso il suo riflesso mentale"

Un inchino

 

 

 

 

 

 

  

2. Antipatia e simpatia: dall’emozione del copione al vissuto esperienziale

 

   

Nella nostra dimensione caratteriale proviamo spesso attrazione o repulsione per le persone. Accettiamo con naturalezza di avere idiosincrasie e comunanze, stabilendo rapporti di simpatia e antipatia. Viviamo storie in cui questi sentimenti paiono stabili e duraturi e altre in cui, quasi inspiegabilmente, mutano nel loro contrario o si alternano capricciosamente senza una vera coerenza. Ci adoperiamo così nel gestire relazioni in cui dei sentimenti ci guidano, ci indirizzano ed esigono espressione. Sentimenti che esterniamo con passione o che nascondiamo con dubbia o consumata abilità, ma comunque presenti e vivi in noi.

Sul versante dell’antipatia, nutriamo sensazioni e impressioni, legate a una serie di caratteristiche, comportamenti o azioni che ci turbano e ci stimolano reazioni di allontanamento o di aggressività: ci sono antipatici, perché, per qualche motivo, ci toccano, ci disturbano, ci fanno male, ci addolorano. Ci sottraggono serenità e, nel pensiero, cerchiamo di motivare queste nostre istintive reazioni, dare una giustificazione alla decisione con cui si manifestano, all’immediata e viscerale adesione con cui le accogliamo. Attribuiamo a loro il potere di ferire, infastidire, destabilizzare, piuttosto che considerare la nostra vulnerabilità. Abbiamo bisogno cioè che ogni reazione a essi appaia, non solo legittima, ma necessaria: una mera conseguenza di un attacco, piuttosto che l’espressione di un sentimento ingiustificato. Tentiamo, di fronte a un immaginario uditorio, di rendere oggettivi, con argomentazioni che devono convincere prima noi stessi, i motivi per un’espressione dell’antipatia che provo. Anzi, essa stessa deve assumere le vesti di un argomento razionale: smettere di essere il sentimento immediato che è, per apparire solo una distaccata considerazione di fatti inoppugnabili che richiedono risposte adeguate. Così è l’altro che malignamente mi attacca con le sue azioni e potenzialmente con la sua stessa esistenza. E’ lui, col suo modo di essere, che lede la mia serenità, il mio equilibrio. E’ lui che mi sottrae possibilità, attenzioni, consensi o mi crea difficoltà che non avrei. E’ lui che mi spinge, spesso perché m’invidia, talvolta perché lo invidio, a giustificare le mie azioni, che m’inibisce, che mi costringe a uscire dall’angolo, a mostrarmi, scomposto e rabbioso. E’ lui che mi offre la maligna possibilità di essere il peggio di me, quel me che nascondo come un’amara vergogna. La malvagità, l’arroganza, la presunzione, l’orgoglio, acquattati nell’ombra della mia immagine pulita, rischiano di scendere pericolosamente in campo per una lotta senza quartiere. Infine, quando nessuna giustificazione dovesse essere possibile, mi appiglio al sentimento in sé e, come ultima ratio, dichiaro che è l’antipatia stessa la giustificazione dei miei atti. Ritirandomi così nel bunker del mio carattere, cerco un’ultima difesa che mi eviti il tribunale del perché. Dietro lo schermo del carattere, qualsiasi atto trova giustificazione in una sovrastruttura di cui, non solo non sono responsabile, ma di cui sono addirittura vittima. In tal modo mi ritengo in diritto di agire nel pieno del crogiuolo delle mie antipatie personali, senza dover dare conto dei miei atti più che con un generico “son fatto così” oppure “ognuno ha la sua indole”, come se queste sciocchezze significassero davvero qualcosa.

E comunque, qualunque sia l’esito delle nostre giustificazioni, in virtù delle quali agiamo la fuga, l’evitamento, l’attacco, la difesa, o persino velenose ed elaborate strategie di vendetta, tra le quali anche il perdono (a seconda delle circostanze, della mia indole, del mio copione di comportamento), un senso di sconfitta mi seguirà comunque. Ma cosa mai è sconfitto in noi se non la maschera con cui copriamo il nostro essere, la nostra verità innominata e profonda? E’ questa la nostra vera debolezza: le nostre debolezze nascoste, quelle che ci rendono umani. E dunque l’antipatico è colui che viene a bussare alla nostra porta segreta, con uno specchio, per ricordarci chi siamo, per mostrarcelo e per farci uscire allo scoperto. E’ colui che ci ricorda che esistiamo ben oltre la nostra facciata, quella facciata che lui frantuma con la sua semplice esistenza che così tanto ricorda e rappresenta quel che io nascondo. Invariabilmente, appena ci soffermiamo un po’ sulla faccenda, riconosciamo, in ciò che ciè antipatico, esattamente quello che nascondiamo in noi stessi come una colpa segreta di cui non vogliamo che ci sia notizia: la nostra immagine, l’unica per la quale proviamo stima e affetto, ne soffrirebbe. La stessa antipatia che proviamo fuori per l’altro, la riserviamo a noi dentro. L’antipatico che ci si para davanti ci ferisce così doppiamente: da un lato ci ricorda chi siamo, costringendoci a una disperata difesa e dall’altro si mostra molto più sfacciato di noi nell’esprimere quel che teniamo segreto. Così si mescola in noi, sia il risentimento che l’invidia, rendendo impellente un’azione distruttiva o l’allontanamento più radicale.

Ogni tentativo di convivere con l’antipatico diviene una tortura e mette in gioco strategie complesse e logoranti in cui tutto si misura in tignose rivalse e brucianti sconfitte, nessuna definitiva e risolutiva: un rosolarsi a fuoco lento dell’orgoglio e della dignità. Talvolta, come dicevamo, del tutto inaspettatamente, qualcosa si rompe in questo equilibrio e l’antipatia lascia il posto al suo opposto. Chi si odiava, si ama improvvisamente. Spesso alla base della conversione c’è qualche gesto o apertura improvvisa che lascia intravvedere una dimensione inaspettata del rapporto: qualcosa che era già lì, ma non visto, non considerato. Quello che era un luogo ostile diviene all’istante accogliente, la contrapposizione si trasforma in improvvisa complicità. Può mai stupire tutto questo se pensiamo alla natura stessa dell’antipatia? Se la vediamo per quel che è: null’altro che il suo contrario riconosciuto dal nostro lato oscuro. Quel che rende antipatico e simpatico qualcosa che invece in sé è indifferente, non è che la creazione della mente che difende la sua creatura più preziosa: l’immagine di sé. Al di fuori di essa non c’è più attrazione e repulsione, ma vita diretta: il piacere e il dispiacere dell’organismo nel qui ed ora dell’incontro, che sostituiscono l’attrazione e la repulsione emotiva e mentale del copione.

Dunque, esiste una posizione vuota da intenzioni e priva di scopi che garantisce un contatto diverso e fuori dalle dicotomie delle emozioni. Una posizione che è caratterialmente indifferente, ma non anaffettiva. Una posizione di piena visione e accettazione di sé e dell’altro con tutto quel che c’è. Questa posizione è quel che ci riguarda maggiormente nel contatto terapeutico: ne è l’unico vero presupposto e scopo.

Sperimentare, trattenere, aprire e chiudere, respirare in questa dimensione che definiamo vuota, perché priva di oggetti mentali e fertile perché colma di realtà, è ciò che caratterizza la formazione del terapeuta della Gestalt. Un inchino.

 

 

 

 

 

                                                                                                                                     

 

1. Elogio dell’irritazione  

 

  

Mia dolce compagna,

insieme a te ho sempre trovato e ritrovato la via di casa. Quando il mare s’ingrossava e mi sommergeva, eri l’unico appiglio con cui galleggiare in attesa della bonaccia e della riva. Hai sempre, talvolta sola e inascoltata, difeso le mie voglie e la mia volontà profonda: quante volte contro tutto e tutti. E tu, solo tu, mi hai dato conforto vero nell’amore tradito e umiliato: in quei momenti mi hai ascoltato, hai dato voce e presenza al dolore straziante che mi graffiava le carni. Sei stata tu, nel fondo di un letto buio a darmi la forza di risollevarmi e di sfuggire una morte precoce.

Mia cara compagna, a te devo le mie conquiste, spesso, forse sempre, ottenute contro qualcosa o qualcuno: non darla vinta, trionfare, resistere, fargliela vedere… A ben capire, mi sei stata sempre dentro anche nella resa: ti chiamavi colpa, ma della colpa eri solo il senso; per il resto eri rabbia e dissenso per quel che le circostanze mi costringevano ad abiurare. Rimanevi, segretamente, a ricordarmi la via di casa mentre in catene mi portavano in esilio nelle amare terre del pentimento: le terre dove il perdono concesso fu più una minaccia che un sollievo. E tu urlasti quel che loro volevano, ma la tua foga tradì sempre le loro aspettative: troppo era il tuo flagellarmi e scomposto lo spettacolo della penitenza che mi imponevi! L’inconfessabile verità, la tua violenza, volutamente mal diretta, colpì sempre il suo vero bersaglio: gli occhi e il cuore di chi mi volle colpevole. Anche allora hai salvato la mia dignità e quel grumo di rabbia su cui era rappresa.

Mia devota amica, ti ringrazio per avermi sempre indicato i rovi e le spine sul bordo dei sentieri e soprattutto quelle che adornano, traditrici, le rose più profumate. Sempre dalla mia parte, fino all’inverosimile, fino al patetico, fino al paradosso, al falso, al truffaldino e al ridicolo: fino al centro della mia anima martoriata dalla vita. Insieme, mia vera madre, insieme per sempre: giammai ti lascerò per nessun’altra: perché nessun’altra è capace di tanto. Insieme, insieme: tu me, io te. Presentiamoci al mondo con un inchino irriverente!

E ora? Ora che ho subito la consapevolezza, ora posso parlar posato, solo ora, senza abiure e condanne, senza ipocrisie raccomandate e richieste, senza consapevolezze imposte. Ora posso vivere la preghiera della Gestalt therapy:

Ora, che io sono io e tu sei tu (cioè le nostre irritazioni). Ora, che io faccio davvero la mia cosa e tu la tua (cioè ci irritiamo senza scandali o colpe). Ora, che sappiamo che non siamo al mondo per placare l’irritazione dell’altro o per reprimere la nostra. Ora, che accettiamo che l’incontro non può prescindere dalle nostre irritazioni, incontriamoci pure. Amen.

E adesso? Adesso che mi son ritrovato, che son diventato me stesso, che ho pregato il dio che è in me e mi son risposto? Adesso che sono uno e non due, ora che la sacra unità è ricomposta, cosa accade? Cosa accade adesso che non più faccio accadere le cose ma ci sono dentro, persino dentro me stesso, senza più comandi o direzioni che non siano nei fatti? Cosa succederà? Nessuna consapevolezza più da inseguire o cercare ma solo da subire, come il vento che mi sfiora la pelle, l’acqua che mi bagna il viso, il tempo che mi cambia: ineluttabile e severo.

Cosa succederà? La preghiera appena fatta ed esaudita è già un passato rinsecchito, un’icona di un vecchio culto e la vita bussa e reclama un nuovo dio, il vero Dio. Cosa vorrà da me? Ora, cosa mi chiederà? Ma Lui è muto, chiuso ancora in un bozzolo da cui mi osserva curioso. Non ha che la voce della mia inquietudine, ma non più della mia irritazione: mi guarda e sorride. Il suo sguardo non è che una mano tesa e calda che mi invita oltre. Un Oltre che non conosco e che mi è ignoto. Un Oltre immenso come la domanda: sei felice? Certo che no. Grazie alla mia irritazione però so sempre perché non lo sono. Una dolcissima risata squarcia per sempre il suo bozzolo e Dio esce alla luce, regalandomi la nuova preghiera:

Io non sono io, Tu non sei tu

Io non faccio la mia cosa, Tu non fai la tua cosa

Io non sono al mondo per soddisfare i miei bisogni

Tu non sei al mondo per soddisfare i tuoi bisogni

Se ci incontriamo vorrà dire che ci siamo visti.

Altrimenti saremo solo quel che siamo.

 

È necessario accettare quel che siamo per comprendere che non lo siamo!

 

Un inchino.

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