Mimmo Ciavarelli

 

 

Rubrica di Costume & società

 

 

4.   Il valore della diversità: incursioni corsare sulle rive della maggioranza.

 

Un nuovo dibattito, da qualche tempo, infiamma i rotocachi alla moda in cui sono trasformate le prestigiose testate che hanno incarnato, dal dopoguerra, il giornalismo italiano, e con esso, la facciata liberale del potere, con i suoi alibi di tolleranza. E proprio questo nuovo dibattito si presenta come l’affermazione più concreta di questo principio, che nuove leggi dovranno ribadire e scrivere nelle coscienze di una nuova maggioranza. Dopo gli altri paesi, anche l’Italia avrà le sue “unioni civili” con le quali sancirà il suo modernismo liberale, ugualitario e… omologante, direi, se per un attimo rivestissi i panni di un vecchio corsaro e mi concedessi un’incursione sulle rive delle maggioranze e sulle sue spiagge alla moda, su cui le news quotidiane insistono, con improbabili interviste ai suoi frequentatori, alcuni persino in costume, avvezzi alle alla frequenza altrettanto improbabile di Palazzi di potere e di bordelli a cielo aperto su “Isole di famosi”. Per farlo, vi proporrò la rilettura di un vecchio articolo di lui, il corsaro per eccellenza, Pasolini, pubblicato dal Corriere della Sera del 19 gennaio 1975 e poi raccolto in “Scritti corsari”, in cui mi sono fortuitamente imbattuto di recente. Dico rilettura, assumendo (cosa né scontata, né probabile) che molti dei miei lettori lo abbiano già letto in passato e, cosa rara, magari apprezzato. La natura stessa di questo scritto, molto calato in un dibattito che infuocò un’intera stagione di battaglie civili che trasformarono l’Italia, gettando le basi culturali per un futuro che oggi è il nostro presente, mal si presta a essere facilmente condivisa. Non lo fu allora, e non lo è ora. L’articolo fu un intervento polemico dello scrittore sul tema dell’aborto che, insieme col divorzio, rappresentarono i cavalli di battaglia di un’intera generazione di progressisti. Pasolini, si schierò palesemente contro, pur essendo notoriamente un libertario e un uomo di sinistra. Lo fece con scandalo, scegliendo argomenti non scontati, né evidenti. Lo fece scegliendo strade scomode che lo esposero a malevoli interpretazioni, a causa delle sue tendenze sessuali, notoriamente “diverse”. Lo fece scegliendo di essere ingenuo, quasi un principiante, come polemista, la cui prima regola è di pararsi dagli attacchi, ancor prima di sferrarne. Invece, Pier Paolo si offrì generosamente alle critiche, pur di far emergere, dal fondo del dibattito in atto, alcune verità scomode ma niente affatto trascurabili per chi avesse voluto farsi interprete della società e delle sue viscere. In questo, egli diede alla discussione un taglio che voleva elevarsi molto oltre la polemica, fornendo, da raffinato sociologo, elementi importanti, in grado di delineare le dinamiche di mutamento sociale in atto, la cui piena espressione è sotto i nostri occhi, a quarant’anni di distanza. Riconosciamo la preveggenza, a questo nostro fratello trascurato.

Per ora, buona lettura:

Io sono per gli otto referendum del Partito radicale (i primi promossi – nel 1975 – dai radicali, senza riuscire a raccogliere le firme necessarie, ndr), e sarei disposto a una campagna anche immediata in loro favore. Condivido col Partito radicale l’ansia della ratificazione, l’ansia cioè del dar corpo formale a realtà esistenti: che è il primo principio della democrazia.  Sono però traumatizzato dalla legalizzazione dell'aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell'omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano - cosa comune a tutti gli uomini - io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché, a proposito dell'aborto, ho cose più urgenti da dire. Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio forte ancora che ogni principio della democrazia, ed è inutile ripeterlo.

La prima cosa che vorrei invece dire è questa: a proposito dell'aborto, è il primo, e l'unico, caso in cui i radicali e tutti gli abortisti democratici più puri e rigorosi, si appellano alla "Realpolitik" e quindi ricorrono alla prevaricazione "cinica" dei dati di fatto e del buon senso.

Se essi si sono posti sempre, anzitutto, e magari idealmente (com'è giusto), il problema di quali siano i "principi reali" da difendere, questa volta non l'hanno fatto. Ora, come essi sanno bene, non c'è un solo caso in cui i "principi reali" coincidano con quelli che la maggioranza considera propri diritti. Nel contesto democratico, si lotta, certo, per la maggioranza, ossia per l'intero consorzio civile, ma si trova che la maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per la propria natura, brutalmente repressivo.

Perché io considero non "reali" i principi su cui i radicali e in genere i progressisti (conformisticamente) fondano la loro lotta per la legalizzazione dell'aborto?

Per una serie caotica, tumultuosa e emozionante di ragioni. Io so intanto, come ho detto, che la maggioranza è già tutta, potenzialmente, per la legalizzazione dell'aborto (anche se magari nel caso di un nuovo "referendum" molti voterebbero contro, e la "vittoria" radicale sarebbe molto meno clamorosa).

L'aborto legalizzato è infatti - su questo non c'è dubbio - una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito - l'accoppiamento eterosessuale - a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli. Ma questa libertà del coito della "coppia" così com'è concepita dalla maggioranza - questa meravigliosa permissività nei suoi riguardi - da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo. Esso si è impadronito delle esigenze di libertà, diciamo così, liberali e progressiste e, facendole sue, le ha vanificate, ha cambiato la loro natura.

Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un'ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore. Insomma, la falsa liberalizzazione del benessere ha creato una situazione altrettanto e forse più insana che quella dei tempi della povertà. Infatti, il primo risultato di una libertà sessuale "regalata" dal potere è una vera e propria generale nevrosi. La facilità ha creato l'ossessione; perché è una facilità "indotta" e imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente l'esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza. Protegge unicamente la coppia (non solo, naturalmente, matrimoniale): e la coppia ha finito dunque col diventare una condizione parossistica, anziché diventare segno di libertà e felicità (com'era nelle speranze democratiche).

Secondo: tutto ciò che sessualmente è "diverso" è invece ignorato e respinto. Con una violenza pari solo a quella nazista dei lager (nessuno ricorda mai, naturalmente, che i sessualmente diversi son finiti là dentro). E' vero; a parole, il nuovo potere estende la sua falsa tolleranza anche alle minoranze. Non è magari da escludersi che, prima o poi, alla televisione se ne parli pubblicamente. Del resto le "élites" sono molto più tolleranti verso le minoranze sessuali che un tempo, e certo sinceramente (anche perché ciò gratifica le loro coscienze). In compenso l'enorme maggioranza (la massa: cinquanta milioni di italiani) è divenuta di una intolleranza così rozza, violenta e infame, come non è certo mai successo nella storia italiana. Si è avuto in questi anni, antropologicamente, un enorme fenomeno di abiura: il popolo italiano, insieme alla povertà, non vuole neanche più ricordare la sua "reale" tolleranza: esso, cioè, non vuole più ricordare i due fenomeni che hanno meglio caratterizzato l'intera sua storia.

Quella storia che il nuovo potere vuole finita per sempre. E' questa stessa massa (pronta al ricatto, al pestaggio, al linciaggio delle minoranze) che, per decisione del potere, sta ormai passando sopra la vecchia convenzione clerico-fascista ed è disposta ad accettare la legalizzazione dell'aborto e quindi l'abolizione di ogni ostacolo nel rapporto della coppia consacrata.

Ora, tutti, dai radicali a Fanfani (che stavolta, precedendo abilmente Andreotti, sta gettando le basi di una sia pur prudentissima abiura teologica, in barba al Vaticano), tutti, dico, quando parlano dell'aborto, omettono di parlare di ciò che logicamente lo precede, il coito...  

( P.P.)

 

Mi concedo due parole, alla fine di queste righe, per sottolinearne alcuni passaggi essenziali. Il primo di questi è la chiarezza con cui Pasolini non scotomizza, in nome del progressismo, le ovvietà su cui non si può e non si deve sorvolare: la verità, sembra dirci, viene occultata e stravolta, trascurata, sempre in nome di interessi di maggioranze, che per loro natura sono sempre violente. Dice: Sono… traumatizzato dalla legalizzazione dell'aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell'omicidio”. Poi aggiunge: “… la maggioranza, nella sua santità, ha sempre torto: perché il suo conformismo è sempre, per la propria natura, brutalmente repressivo”: due graffi da grande uomo del suo tempo, per poi proseguire con un’evidenza che solo i più accorti colsero in campo progressista e libertario: “L'aborto legalizzato è… un’enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito…eterosessuale, a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli”. Questo spostamento dell’attenzione sul tema negato della facilitazione di pratiche sessuali che si vanno affrancando dalle difficoltà che ne caratterizzavano la natura, ci invita con insistenza e senza ipocrisie a guardare il futuro non solo come un progresso, ma anche con diffidenza circa le sue direzioni. Aprite gli occhi su ciò che accade, ci dice il poeta, e assumetene il carico e la responsabilità: o non ci avevate pensato? Beh, io ve lo ricordo, se vorrete ascoltarmi e v’indico anche i mandanti occulti del nuovo corso, così che possiate regolarvi: “Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo”. Da qui, il regista ci regala una visione impietosa, in parte psicologica, in parte sociopolitica, del potere nell’esercizio delle sue funzioni e delle maggioranze conformiste, create da tali pratiche: “Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un'ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore”, per aggiungere, subito dopo: “Infatti, il primo risultato di una libertà sessuale "regalata" dal potere è una vera e propria generale nevrosi. La facilità ha creato l'ossessione; perché è una facilità "indotta" e imposta, derivante dal fatto che la tolleranza del potere riguarda unicamente l'esigenza sessuale espressa dal conformismo della maggioranza”. Come non dar ragione, oggi a queste ansie che sembrano pervadere questo scritto? Oggi che tutto è compiuto, che il potere ha completato la trasformazione della società rurali del dopoguerra in una società consumistica? E, beffa ancor maggiore, col consenso e la collaborazione d’interi strati sociali di progressisti che sinceramente credevano di far parte di un processo riformatore di tutt’altra natura. Poi, il nostro “indisciplinato compagno di strada”, ci ammonisce, dalla sua posizione di “diverso”: tutto ciò che sessualmente è "diverso" è invece ignorato e respintoe, con lucido spirito profetico, annuncia: “E' vero; a parole, il nuovo potere estende la sua falsa tolleranza anche alle minoranze. Non è magari da escludersi che, prima o poi, alla televisione se ne parli pubblicamente. Del resto le "élites" sono molto più tolleranti verso le minoranze sessuali che un tempo, e certo sinceramente (anche perché ciò gratifica le loro coscienze)”.

 Mi fermo qui, caro, inascoltato, fratello e t’immagino ancora tra noi, per un’ultima polemica sul progressismo delle maggioranze che, come ci indicava Faber, l’altro nostro compagno di direzioni “ostinate e contrarie”, non sono mai buone, perché “come si fa ad essere così coglioni da non capire che non ci sono poteri buoni” e che dovere di ogni vero progressista è l’opposizione a qualunque maggioranza?

Hai saputo, Pier Paolo, di queste “unioni civili” di cui si parla? Certo, sorridi, su quanto sottilmente le nuove maggioranze giudichino ormai “incivili” le altre, su come ormai rappresentino l’oscena confusione tra economia, sentimenti, burocrazia, esibizionismo sociale e consumi. Un vero guazzabuglio che tu avevi previsto e di cui lucidamente tieni ancora le fila. Mi ricordi i passaggi di questo scempio moderno, in cui le unioni sono sempre più una merce a tempo, conseguenze ovvie del divorzio e dell’aborto, cioè del dispiegarsi di quell’esercizio del potere che ai tuoi tempi muoveva i primi passi. Ma ora ti provoco, ti parlo di coppie gay e di adozioni. Una smorfia ti attraversa il viso e con voce che non perde mai la sua mitezza formale, diventi sprezzante nel rifiutare il termine gay, al quale preferisci quello di “diverso” al quale sei affezionato e al quale attribuisci una profondità rivoluzionaria irrinunciabile in un progressista. Poi sorvoli, e ti concentri sull’altro punto che a te pare un nuovo snodo sociale da cui scaturiranno le future tendenze che già intravvedi: le adozioni. Ma come, Pier Polo, sei contrario? Proprio tu? Sorridi ancora e mi ricordi che anche allora reagii così per poi star qua, quarant’anni dopo, a riconoscere le ragioni che allora volli rifiutare. Ora non abbiamo più tempo, siamo vecchi e possiamo metter da parte le facili contrapposizioni, esser più riflessivi, con meno orgoglio accettare d’imparare dall’esperienza. Certo che sono contrario, mi dici: non vedi che ancora una volta una nuova maggioranza si va formando nel paese? Ti ricordi, che già allora sostenni che “Non è magari da escludersi che, prima o poi, alla televisione se ne parli pubblicamente”? Non solo è successo, ma nuove libertà regalate sono in arrivo per i “diversi”. Ma non sono auspicabili questi riconoscimenti dei diritti che ciascuno porta con sé, come patrimonio d’appartenenza? No, caro, mi sorridi ancora, non è così. Innanzitutto, non riconosco a qualcuno il diritto di riconoscermi: non ti sfuggirà che questa non è solo una questione formale, ma sostanziale. Questa equiparazione che la maggioranza mi propone è solo un’omologazione squadrista, in cambio della mia abiura. Di quale abiura parli, Pier Paolo? Di quella della mia “diversità”. In questo mondo orrendamente omologato e “normalizzato”, eravamo gli unici portatori di una possibilità diversa di rapporti umani, di coppia; gli ultimi critici potenziali del fascismo dilagante della deriva eterosessuale mercificata, così intrisa di disvalori da fare orrore. E così, ora, proprio ora, il potere ci regala la parità, non senza farci penare, ma con apparente magnanimità tutti si occupano dei nostri diritti. Capisci, ci regalano diritti! Ma quali diritti? La paternità, dico io. Scherzi, mi rispondi, facendoti serio. Ma è davvero un nostro bisogno? A me pare più una di quelle necessità mercantili indotte, giochi per farci trastullare, per renderci docili scimmiette ammaestrate dalla dittatura eterosessuale e dei suoi attuali disvalori. Credimi, sono contrario su tutta la linea. Ho solo bisogno di restare libero e conservare la mia rivoluzionaria, scandalosa “diversità”, compreso il rifiuto della paternità. Come sai non ho mai avuto bisogno di certificati di proprietà per occuparmi di educazione di giovani e per amarli. Ora mi guardi a lungo, per invitarmi al silenzio che precede la commovente comprensione di un futuro che già non ci appartiene. Taccio, tacciamo assieme e d’improvviso mi manchi, come se troppo poco t’avessi avuto compagno di strada. Ti saluto con un cenno del capo e piango in solitudine. Un inchino

 

 

 

 

 

 

 3.  La relazione medico paziente

 

Sempre più spesso la psicologia o la stessa filosofia, vengono invitate a esprimersi sugli aspetti etici della relazione medico paziente. Questa è senz’altro una grande apertura di orizzonte per ogni medico che voglia interrogarsi sull’incidenza che la crescente tecnicizzazione della sua disciplina ha sugli aspetti relazionali e, in ultima analisi, sulla stessa efficacia. Tuttavia dubito che un’altra disciplina possa trasmettere qualcosa in più dei suoi vizi, quando venga utilizzata fuori dalle prassi che le sono proprie. E diffido anche della multidisciplinarietà che troppo spesso è solo una giustapposizione interessata di operatività inassimilabili. Infine, trovo poco elegante il presenzialismo intellettuale in casa d’altri che spesso non nasconde che un malcelato tentativo d’imperialismo culturale. Nella mia doppia veste di medico e di psicologo mi sento così più sicuro di poter tradire ogni aspettativa di egemonia culturale e poter così dare un mio piccolo contributo al tema dibattuto. Ho sempre pensato che la psicologia, giovane costola della medicina e della filosofia, conservasse troppo ancora dell’una e dell’altra e stentasse a definirsi in una forma più autonoma. Sarebbe paradossale, ora che, di ritorno, la medicina stessa fosse contaminata dalla psicologia o dalla sua antica madre, la filosofia, dalla quale si distaccò per pragmatismo. Ma non è proprio questo movimento d’integrazione tra discipline che genera il progresso? Certo che è così, ma dobbiamo pur distinguere la direzione, l’ambito e gli scopi di un tale progresso, averne una visione strutturale, prevederne gli esiti e i costi, per potere con cosciente consapevolezza essere attori del cambiamento, protagonisti delle sue svolte. Il futuro è solo accennato, non ancora scritto e ciascuno darà ad esso il suo contributo: avere occhi aperti è essenziale per chiedersi innanzitutto dove stiamo andando? Certamente il progresso tecnico ha contaminato quasi tutte le discipline ed è divenuto anche un’aspettativa sociale e individuale per tutti. Tuttavia, insieme agli innumerevoli vantaggi che questo ha portato, si stanno sedimentando una serie crescente di conseguenze soprattutto in campo umano e relazionale. Le nostre società, gestite da macchine sempre più sofisticate, divengono vieppiù luoghi di desertificazione relazionale. Una crescente disumanizzazione in tutti i campi è lo scotto sempre più evidente da pagare alle nostre sicurezze tecniche. Oggetti come mezzi di felicità, sostituiscono la gioia di un incontro, che sempre più spesso è esso stesso mediato da cose e strumenti virtuali. Anche in campo medico la tecnica ha invaso i rapporti e li ha come prosciugati in un protocollo o in un dato statistico cui nessuno ha il coraggio artistico di prescindere. Ma quante arti son divenute forzosamente scienza? La medicina, certamente, ma anche la pedagogia, nella quale la razionalizzazione tecnica della relazione educativa, sta trasformando le nostre scuole in laboratori per una scienza dell’educazione. E vogliamo parlare della stessa psicologia e della sua deriva tecnocratica? Non solo i suoi test, ma anche le sue orribili pretese diagnostiche e la sua pervicacia nel descriversi come “cura” di una “presunta malattia”. Quella “malattia presunta” che ormai sopravvive arroccata, come ultima frontiera della resistenza umana: e che altro non è che il diritto al malessere di vivere! E poi, le sue tecniche in cui l’uomo, divenuto un malato, scompare: è ormai solo un nevrotico, così simile e speculare al suo simile che lo scruta. La filosofia sembra salvarsi, ma non è essa stessa immune dalla volgarizzazione che la tecnica impone. Sempre più presenze a carattere “divulgativo e consumistico” sui media, sempre più “opinionismo filosofico” sostituiscono il filosofare “col martello” o l’impegno creativo. E di recente, sempre più cultura è al servizio di dubbie operazioni “tecniche” di tardosofismo, come la consulenza filosofica, tanto per citarne una.

Ecco perché dubito che tutte queste discipline in evoluzione, ciascuna impegnata a pagare i prezzi del suo proprio modernismo, possa aiutare l’altra a sottrarsi dal suo balzello. Ma come non accorgersi che spesso è proprio nella richiesta di aiuto, nell’offerta di una soluzione, che si cela un ulteriore progresso verso una disumanizzazione ancor più spinta? Come non capire che tutte le discipline fanno parte e concorrono a un unico processo, all’interno di un paradigma tecnico scientifico di stampo riduzionistico? Un nuovo paradigma umanistico è possibile immaginarlo solo se capovolgiamo ogni singola disciplina, adottando una visione olistica della realtà e dei rapporti, una visione in cui scompaiano i fatti, le cose, i ruoli, per lasciar posto ai processi, ai sistemi, all’unità del gesto e del senso. Di cosa parlo? Di una medicina che guardi all’unità dei fenomeni, più che alla loro scomposizione in un’affannosa rincorsa di specializzazioni sempre più settoriali. Una medicina che chieda spiegazioni al più complesso piuttosto che al più semplice, che interroghi la coscienza piuttosto che le molecole. Una medicina che coniughi i grandi progressi tecnici con la vocazione ad una grande ricomposizione dell’uomo: un orizzonte degno di una gloriosa arte e di una lunga tradizione cui nessun medico può dirsi esente. Una sfida che dobbiamo e possiamo raccogliere, ma che prevede grande lucidità per essere perseguito. La medicina può riacquistare così quel ruolo “umanistico” che le spetta e porsi come elemento unificatore delle sapienze moderne circa l’uomo: esserne il tramite ed il fine.

Il tema che stiamo trattando, ad esempio è una prova di quei discorsi sull’uomo che rischiano di escluderlo nella sua concretezza reale. Uno di quei discorsi che, mal condotto, portano, in nome dell’umanità, ulteriore disumanizzazione. Parliamo del rapporto medico paziente e della responsabilità umana del medico. Un primo errore di prospettiva sarebbe considerare questo rapporto come costituito dalla somma delle parti, cioè da un medico più un paziente. In realtà è il prodotto di due processi. Un secondo errore sarebbe considerare vera l’affermazione che esista un modello di rapporto medico paziente cui adeguarsi o discostarsi. In realtà esistono molteplici rapporti differenti che si compongono e scompongono nella spontaneità della relazione ed ogni tentativo di modificare la spontaneità umana, accentua gli elementi disumani: nessuno può essere doverosamente spontaneo e al contempo umano. In queste brevi osservazioni c’è già tutta l’assurdità di problematizzare un incontro, rendendolo tecnico: sottrargli mistero, fascino, imprevedibilità e renderlo oggetto di studio, discorso, territorio di tecniche e saperi, convenzioni e protocolli. E tutto questo in nome dell’umanità. Ma andiamo per ordine, per scoprire come certi errori siano possibili e come s’inseriscano in un coerente paradigma e, soprattutto, come si possa sottrarsi ad esso, aderendo ad un altro paradigma che pur attraversa la nostra epoca e si va affermando in varie enclave all’interno delle discipline.

Quello che chiamiamo rapporto medico paziente è dunque una categorizzazione, un’astrazione dei molteplici tipi reali di rapporto tra un uomo che ha esperienza medica e un altro che gli si rivolge per un problema di salute. Come ogni astrazione e categorizzazione, contiene un sufficiente grado di realtà per poterne fare un discorso e ricavarne progettualità, ma anche un notevole grado di indeterminazione e con essa di disumanizzazione, sostituendo alle persone concrete, dei concetti e all’esperienza, il pensiero. Ogni volta che unità di vita divengono problemi, discorsi, saperi, tecniche, paghiamo questo tributo ad un qualche bisogno sociale sotteso. La domanda che dovremmo farci è quindi: Perché ora? Quale è la necessità sociale che spinge a riformulare in discorso una relazione in cui si sente il bisogno di una nuova categorizzazione? Non che in passato la natura della relazione sia stata marginale nella prassi medica, anzi. Essa è stata, in ogni tempo, un fulcro della sua efficacia e parte stessa della sua metodologia. Ma, a parte alcune regole di comportamento, la cosiddetta deontologia, i discorsi non andavano oltre e soprattutto non invadevano la sfera più intima dei sentimenti delle persone coinvolte nella relazione. I sentimenti entravano nel gioco della cura, ma la loro dinamica era lasciata ad un libero gioco delle parti e forse facevano parte del lato artistico dell’incontro e della sua efficacia. Era anche qualcosa che si apprezzava, quando la danza emotiva creava bellezza, nobilitando l’arte e aggiungendo salute in entrambe le direzioni del rapporto. Ci si è occupato per secoli soprattutto di progresso scientifico e di scoperte che potessero dar salute in maniera diretta e meccanica: vaccini, farmaci, presidi chirurgici e anestesie per il dolore, in una rincorsa tecnica al benessere sempre e comunque. Un rimedio per ogni disturbo: questo è sembrato il compito e la nuova frontiera del medico. E in questo non è mai stato isolato: una crescente fiducia nella scienza ha pervaso chiunque, spingendolo ad abbandonare ogni altro territorio di conforto, compresi quelli relazionali che furono visti sempre più superflui e residuali. Sempre più son state privilegiate le competenze tecniche, rispetto a quelle umane, in un mutamento storico dei rapporti, sempre più caratterizzati da una reciproca complicità d’intenti e di fedi, oltre che accomunati da un medesimo sogno di sconfiggere il dolore per sempre, perché no, anche dalle relazioni.

Ma da un po’, gli aspetti relazionali sono tornati a generare discorsi e produrre aspettative. Ancora una volta, da un lato e dall’altro, le spinte sembrano convergere verso un nuovo mutamento: tutti vogliono più umanità nel rapporto, ma questo non deve trarci in inganno. Non si tratta di un vero capovolgimento di prospettiva rispetto alla corsa verso il progresso tecnico. Infatti, se così fosse si metterebbero in discussione le basi di ciò che ha prodotto una crescente disumanizzazione dei rapporti e lo stesso paradigma riduzionista che lo sostiene. Nulla di tutto ciò, ma continuando nella deriva di scissioni dicotomiche, si vorrebbe solo aggiungere, correggere, modificare, senza cogliere i nessi e le relazioni tra le cose, cioè la profonda unità dei fenomeni. Si chiede dunque al medico, si badi, solo a lui, una maggior competenza umana, sentimentale, emotiva. Come in tutte le catastrofi moderne, a ogni conseguenza di un modo dissennato di vivere, si contrappone un rimedio peggiore del male, anche a questa carenza di umanità, si risponde con la classica inelegante e sgraziata toppa che più che correggere, evidenzia il danno. Nessuno vuol mettere davvero mano alle cause profonde della disumanizzazione crescente, invertire tendenza, sposare con sempre maggior coerenza un nuovo paradigma che coinvolga profondamente tutto il nostro vivere e attraversi i vari saperi, ridefinendoli e trasformandoli. Nel nostro delirio tecnicistico, anche il rimedio che cerchiamo è tecnico: esperti di comunicazione che travasino corrette dosi di umanità in una relazione che appartiene loro solo come problema tecnico da risolvere. E tutti, nell’ipnosi collettiva dello scientismo, approviamo quel che è solo la conquista dell’ultimo territorio ancora libero dalla dittatura dei sapienti e degli esperti: le relazioni umane, le emozioni, l’anima, che dovranno sempre più essere controllati dalla tecnica e divenire essi stessi atti tecnici.

Tutti infatti condividono l’idea che spetti al medico, cioè al tecnico risolvere problemi tecnici e dunque si considera il problema stessa dell’umanizzazione come un problema tecnico. Con questa deresponsabilizzazione collettiva davanti al feticcio di una società tecnologica stiamo affidando sempre più a un sogno, a un mito i nostri destini.

Ma nella realtà, medici e pazienti danzano al ritmo sociale dei paradigmi di convivenza e il loro rapporto è un’unità inscindibile, un insieme coerente che rivela la sua natura solo se vista nella sua funzionalità globale. Scinderlo, attribuendo responsabilità diverse agli attori, non permette di coglierne l’essenza che è il prodotto e non la somma delle funzioni in gioco. E’ evidente come entrambi dovrebbero risvegliarsi dal comune delirio tecnologico e dall’irresponsabilità che comporta. La decisione di questa deriva non è stata del medico più che del paziente. Se anche il medico se ne discostasse, il paziente la richiederebbe ancora e ancora. La disumanizzazione derivata dalla fede nella tecnica non appartiene al medico, ma alla diade: ne sono entrambi assuefatti e immersi in una società che ne ha fatto il suo valore. Portare piena umanità nel rapporto medico paziente, significa rimettere in discussione i feticci scientifici, individualizzare la cura a tal punto che ogni situazione sia nuova, abolire la dicotomia mente corpo, sano malato e curatore curato, in vista di incontri medici di piena collaborazione e corresponsabilità delle scelte e degli esiti. Ma non vorrei dilungarmi in descrizioni di panorami lontani e dimenticare un presente contraddittorio perché attraversato contemporaneamente da linee di forza contrapposte, due paradigmi: l’uno imperante, ma sempre più fragile e disperato e l’altro in ascesa lenta ma progressiva che compare come malessere diffuso in cerca di convergenze. Un paradigma sociale che non ragioni più in termini riduzionisti e dicotomici, ma si indirizza verso una visione sistemica e funzionale dei fenomeni e favorisca la presenza e la responsabilità in tutte le sue forme di interazione e in tutte le sue funzioni organizzative. Un pensiero dalla forma debole, una strada culturale, al posto di soluzioni forti e rassicuranti, soprattutto immediate. La fantasia e l’illusione appaiono sempre più imponenti di una misera realtà, ma essa è l’unica che non riserverà delusioni. Terminerò dicendo che mai nel mio lavoro darò più importanza al mio paziente che a me. Non l’amerò mai come condizione. Accetterò sempre tutti i sentimenti presenti, suoi o miei, come risorsa da utilizzare per il comune lavoro. Lo considererò sempre unico e irripetibile, come il nostro incontro, qualunque esso sia. Circa la natura dell’incontro, il bisogno che il paziente incarna è valida occasione per entrare entrambi in contatto con quello che più ci coinvolge nel tentativo di vita e di felicità. Un inchino.

 

 

 

 

  

 2. Morire bene  

 

Ho ricevuto, come ogni tanto capita, una di quelle mail che in premessa o in postilla ci chiedono, in genere per motivi umanitari, di essere diffuse. Come di norma, mi è arrivata da un conoscente, attraverso una catena in cui mi si chiede di diventarne un’ulteriore maglia. Questa volta, viene da un ospedale pediatrico di Bologna ed è patrocinata dal direttore stesso. Contiene una poesia di una giovane ragazza adolescente, Laura, così vorrei chiamarla per tutto lo spazio di questo scritto, malata terminale a cui restano pochi mesi di vita. Il suo desiderio è quello di farla arrivare a chiunque sia possibile, perché è un inno alla vita e un monito a viverla pienamente finché sia possibile. La poesia è questa:

DANZA LENTA

Hai mai guardato i bambini in un girotondo?

O ascoltato il rumore della pioggia quando cade a terra?

O seguito mai lo svolazzare irregolare di una farfalla?

O osservato il sole allo svanire della notte?

Faresti meglio a rallentare.

Non danzare così veloce.

Il tempo è breve.

La musica non durerà.

 

Percorri ogni giorno in volo?

Quando dici "Come stai?" - ascolti la risposta?

Quando la giornata è finita ti stendi sul tuo letto

con centinaia di questioni successive che ti passano per la testa?

 

Faresti meglio a rallentare.

Non danzare così veloce

Il tempo è breve.

La musica non durerà.

 

Hai mai detto a tuo figlio: "lo faremo domani?"

senza notare, nella fretta, il suo dispiacere ?

Mai perso il contatto, con una buona amicizia, poi finita, perché

tu non avevi mai avuto tempo di chiamare e dire: "Ciao"?

 

Faresti meglio a rallentare.

Non danzare così veloce

Il tempo è breve.

La musica non durerà.

 

Quando corri così veloce per giungere da qualche parte,

ti perdi la metà del piacere di andarci.

Quando ti preoccupi e corri tutto il giorno,

come un regalo mai aperto… gettato via.

 

La vita non è una corsa.

Prendila piano.

Ascolta la musica.

Laura ci parla col distacco e l’autorevolezza senza età di chi si avvia con consapevolezza a percorrere i suoi ultimi giorni. Laura ci parla come una sorella e ci esorta a vivere pienamente, qui e ora, senza rinvii ma senza fretta, trovando il giusto ritmo per essere in sintonia con gli eventi. Laura ci parla e mentre parla sta morendo. Lo sa e sa farlo. Laura sa morire, perché ha imparato a vivere. La sua sarà una buona morte. Non sono molti quelli che sanno farlo, che sanno andarsene con lo sguardo lungo su quello che lasciano, con l’amore per i fratelli intatto nel cuore. Ma, soprattutto che sanno fare della morte un’occasione di vita e di crescita personale, che sanno, fino alla fine, sviluppare la propria umanità e che forse raggiungono proprio negli ultimi istanti di vita la visione illuminata delle cose, che sanno cogliere quella rara opportunità che quei rarefatti momenti riservano a chi sa comprenderli: una specie di perla nascosta nell’ostrica di quell’ultimo saluto.

Laura cara, anch’io voglio salutarti e rendere omaggio a questa tua capacità, ormai rara, quella di saper morire, di morire bene. In un’epoca in cui la morte è uno scandalo che ci coglie sempre impreparati. In un’epoca che, condannandoci ad un’eterna gioventù, rifugge la vecchiaia e la vede sempre più come malattia, debolezza, sconfitta. In un’epoca di edonismo militante, in cui non c’è spazio né tempo per la tristezza e il dolore. In un’epoca dove la vecchiaia, la malattia, il dolore e la morte sono sempre più fatti privati e nascosti: vergognosi. Tuttavia, cara Laura, voglio salutarti senza considerarti un fenomeno o un’eccezione, ma voglio immaginare che il tuo percorso umano sia quello più naturale quando la morte ci concede quel po’ di tempo senza strazio per poterci preparare ad essa. Voglio salutarti, Laura, come se questa fosse la consuetudine, senza clamori o commozioni estreme figlie solo del nostro terrore e impreparazione al dolore e alla morte.

Cara Laura, voglio salutarti e dirti che, anche se le tue esortazioni cadranno nel vuoto, com’è naturale che sia, perché la saggezza non s’insegna, ma si raggiunge nella solitudine della ricerca personale, e tu lo sai, io le apprezzo come il suggello di questo tuo percorso. Noi continueremo a correre e ritardare, a sprecare i doni della vita, sino a che toccherà anche a noi cimentarci con la grande sfida di capire ciò che è ovvio per chiunque lo sappia: quelle verità che tu esprimi e vivi. E le tue esortazioni, anche se fossero pronunciate solo per te stessa, anche se solo fossero un artificio retorico, rimangono comunque il tuo testamento e il tuo esempio di una buona morte.

Un grandissimo, ultimo abbraccio e un inchino.

 

 

 

 

 

1. L’umanità s’impara?

 

il 6 luglio 2015, il Corriere della Sera annunciava che il Dipartimento di Oncologia dell’Università Statale di Milano aveva inaugurato un nuovo corso per i giovani clinici: una vera e propria “Cattedra di Umanità”.

La notizia era riportata con grande enfasi, come una vittoria di quanti da anni propugnano un cambiamento in senso umano del rapporto medico paziente. Senza cogliere il paradosso insito nell’insegnare “umanità” a un uomo, si prefigurano i soliti percorsi di formazione che aggiungono ulteriori tecnicismi ad una relazione che è in crisi proprio a causa di questi. Infatti, Il progresso tecnico ha contaminato quasi tutte le discipline. Insieme agli innumerevoli vantaggi di questa deriva, si stanno sedimentando, purtroppo, una serie di conseguenze negative. Le nostre società, gestite da macchine sempre più sofisticate, divengono anche luoghi di desertificazione relazionale. In tutti i campi, una profonda trasformazione delle relazioni umane in senso meccanicistico è lo scotto pagato alle nostre sicurezze tecniche. Oggetti come mezzi di felicità sostituiscono la gioia di un incontro, che sempre più spesso è esso stesso mediato da cose e strumenti virtuali.

Anche in campo medico la tecnica ha invaso i rapporti e li ha come prosciugati. S’impongono cure nelle quali la relazione umana ha sempre meno importanza rispetto alle diagnosi strumentali, ai protocolli preordinati, ai dati statistici e alle tecniche terapeutiche. E da esse più nessuno ha il coraggio artistico di prescindere. La medicina che fu arte è divenuta scienza: la medicina, che fu relazione curante, è ora tecnica salvifica. Quando poi questi novelli scienziati sembrano avere momenti di rinsavimento e parlano di voler porre rimedio alla carenza di umanità relazionale, c’è sempre da temere. Uno dei luminari delle future Cattedre d’umanità annuncia la preparazione di un software che aiuterà a costruire un profilo psicologico del malato in tempo reale: "Sapere se un paziente è depresso o ansioso – spiega – aiuta il medico a trovare le parole giuste, a individuare la strada per avere la sua collaborazione. Perché noi vogliamo che il paziente non sia un soggetto passivo: così le cure funzionano di più!". In nome del protagonismo del malato, si pensa di creare una serie di ulteriori filtri tra lui e il medico: programmatori, psicologi e protocolli di comunicazione preordinati per tipologie. Così, anziché un attore passivo, ne avremmo due. S’immagina di riparare i guasti del tecnicismo che ha invaso la relazione medico paziente con ancora più tecnicismo: una vera cura omeopatica a dosaggi allopatici! Come altro potremmo definirlo, se non un attacco all’ultimo territorio libero, quello della coscienza, dei sentimenti, della libertà comunicativa, dell’anima? Non basta più contaminarle: loro stesse devono divenire tecniche. E, siccome non c’è limite al delirio tecnocratico, il progetto prevede anche la creazione di “App” specifiche che mettono in relazione i malati e la messa in opera di un “Tripadvisor dei medici. Tutto, pur di sostituire le persone e la loro responsabilità individuale con un caleidoscopio di rimandi e rinvii, tecniche e mode sociali.

“Salve, Signor Aristide, sono Vittorio, il suo medico. In cosa posso esserle utile? Ho appena letto la relazione dello psicologo. E’ un po’ depresso. Su con la vita! Il mio sorriso la accompagnerà: la comprendo molto… E’ un po’ ansioso. Si calmi! Il timbro della mia voce calda la rassicurerà. Mi creda, andrà tutto bene… E’ un po’, diciamo, apprensivo verso ciò che lo circonda. Esprima pure liberamente i suoi timori, ne terremo gran conto: sono dalla sua parte. Ora, mi racconti il suo malessere. L’ascolterò attivamente, senza interromperla e guardandola in viso. Poi le farò alcune domande e insieme troveremo la soluzione adatta per lei e ci accorderemo per la cura. Alla fine del nostro colloquio le sarà chiesto di riempire un breve questionario: ci aiuterà a migliorare il nostro rapporto. Non dimentichi, poi, di favorirci una buona recensione e soprattutto…torni a preferirci”

“Ma certo, dottor Vittorio. A Lei darò cinque stelle! E’stato veramente molto umano: come si vede che ha studiato! Questi nuovi modi di fare, come si chiamano? Ah, già, tecniche umanistiche, mi piacciono proprio. Prima era tutto così meccanico. Ora no. Sento proprio come un calore e un interesse vero: ottima recitazione! Anche il mio soggiorno al Resort Hospital è di mio gradimento. Tornerò sicuramente a preferirvi!”

“Grazie, signor Aristide”

“Grazie a lei, dottor Vittorio”

Sull’onda di questa esilarante premessa, immaginiamo allora di ribaltare l’ordine del discorso e porci nuove domande: Quanto poco il paziente è interessato al medico? Sarebbe il caso di chiedere anche a lui uno sforzo umano per entrare in una relazione vera con l’altro uomo, visto che la qualità dell’incontro è così indispensabile alla cura? Perché è sempre e solo il medico, in quanto tecnico, ad avere l’onere della qualità della relazione? Le risposte sono nelle domande stesse: il problema dell’umanizzazione è un problema tecnico e tutti condividono l’idea che spetti al tecnico risolvere problemi tecnici.

“Dottore, come sta? La vedo molto affaticato, forse triste. Ci stiamo conoscendo appena in queste circostanze ma mi piacerebbe sapere di lei… mi racconti qualcosa”. Cosa proverebbe un medico ad essere anche lui trattato “umanamente”? Cosa proverebbe per una volta a non essere il portatore e dispensatore sano di salute? Cosa proverebbe a non avere l’onere e il monopolio dell’umanità?

“Sa, dottore, mi hanno detto che un buon rapporto medico paziente aiuta le cure, anzi è già parte della cura, per cui… cerco di fare un po’ amicizia”. No, questa “umanità” così paritaria, così poco professionalmente caritatevole, non ha mai fatto parte della medicina. La medicina, nei modi che si è sempre data per funzionare, non la prevede. E poi, chi mai parla dell’antipatia medico paziente? Delle difficoltà insite in un rapporto spesso assai frustrante? In un vero rapporto umano non dovrebbe avere anche questo uno spazio? Non dovrebbe, anche questo, aiutare la cura rivelando le sue risorse nascoste? Cosa cela un sentimento così diffuso e negato?

Medici e pazienti danzano al ritmo sociale delle convenzioni e il loro rapporto è un’unità inscindibile. Attribuire responsabilità diverse agli attori, significa non cogliere l’essenza della relazione, che è il prodotto e non la somma delle funzioni in gioco. E’ evidente che gli attori dovrebbero risvegliarsi, entrambi, dal comune delirio tecnico e dall’irresponsabilità che comporta per invertire rotta. La decisione di questa deriva non è stata del medico più che del paziente. La disumanizzazione, derivata dalla fede nella tecnica, non appartiene al solo medico: ne sono entrambi assuefatti, immersi in una società che ne ha fatto il suo valore.

Terminerò dunque, auspicando in maniera del tutto irriverente, ma umanissima, che mai un medico dia più importanza al suo paziente che a se stesso; che non lo ami mai come condizione; che accetti sempre tutti i sentimenti presenti, suoi o dell’altro, come risorsa da utilizzare per il comune lavoro; che lo consideri sempre unico e irripetibile, come il loro incontro; e che il bisogno che il paziente incarna sia visto solo come uno dei tanti tentativi di vita e di felicità che l’uomo persegue. Un inchino.

P.S. Comunque, auspico che i miei stessi auspici non siano presi troppo sul serio. Sono pur sempre un clown e non perseguo intenti etici. A me è solo consentito dire il vero, purché non sia serio. Ci sarà pure un giusto motivo se il mondo persegue con serietà ciò che è sbagliato. No?

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