Mimmo Ciavarelli

“La Gestalt non è una teoria psicologica, né una tecnica di psicoterapia.

E’ una posizione esistenziale, un’estetica dell’essere”

 

 

Una definizione esistenziale

 

Sviluppata da Fritz Perls intorno agli anni ’50 e ’60 del secolo scorso negli Stati Uniti, la Gestalt Therapy è, nel campo delle psicoterapie umanistiche, la sintesi più feconda dei suoi vari indirizzi e delle più importanti suggestioni culturali di quegli anni, ma anche molto di più.

Nel suo impianto sono presenti gli echi della fenomenologia, dell’esistenzialismo, soprattutto quello di Martin Buber. È viva la lezione di Friedländer sul pensiero differenziale e sull’indifferenza creativa, come l’insegnamento della psicologia della forma. È riconoscibile l’impronta di Nietzsche, così come quella della semantica generale di Korzybski e del Buddhismo zen, che in quegli anni cominciava a essere conosciuto. È affermato il pensiero olistico, con la sua critica epistemologica del riduzionismo sino ad allora imperante nelle scienze. Come sono presenti le contemporanee linee evolutive della psicoanalisi, che andavano costruendo quel terzo polo umanistico della psicologia. Dalle prime suggestioni di Adler, Ferenczi, Rank, agli sviluppi di pensiero di Jung, alle intuizioni di Horney, di Fromm, alle scoperte di Reich, alle idee di Maslow, Rogers, May, alla teoria del campo di Lewin, per non citare il fecondo ramo dello psicodramma di Moreno.

L’originale integrazione di questo variegato clima culturale in una pratica come quella gestaltica muove dalla consapevolezza dei modelli percettivi, del comportamento e degli scopi esistenziali dell’uomo, esplorando il come, più che il perché dei fenomeni. Grande attenzione è rivolta così al linguaggio del corpo, minore a quello verbale; maggiore alla forma che non al contenuto delle comunicazioni. Ogni riflessione è riportata al presente (qui e ora) dell’esperienza reale, piuttosto che a quella fantastica dei ricordi o delle anticipazioni, stabilendo una comunicazione in cui la presa d’atto della realtà diviene inevitabile. Si favorisce così un atteggiamento responsabile, radicato nella verità di se stessi e nell’accettazione del proprio vissuto e del proprio modo di essere al mondo, fuori dagli inganni e dalle alienazioni del falso sé sociale o psicologico. L’esortazione delfica del conosci te stesso, si completa, nella pratica gestaltica, nel divieni te stesso. Il cambiamento non ha più così la direzione del desiderio o del dovere, ma quello concreto della verità del momento. Solo questa posizione, libera da fantasie e da programmi, rende possibile la naturale dinamica di proporre e produrre, istante per istante, il mutamento necessario, al posto di quello voluto. Questa visione paradossale del cambiamento, secondo cui per cambiare bisogna divenire se stessi, ha come base la piena fiducia nell’uomo e nella natura evolutiva del suo potenziale, una volta liberato dalla schiavitù dei modelli astratti. La Gestalt non ha dunque altri modelli di uomo o di vita da proporre o promuovere, se non quelli personalissimi ed unici che le nostre individualità autonomamente sviluppano.

Da tali premesse appare ovvio che ogni coerente applicazione tecnica di questa precisa filosofia dell’essere non può muovere che dalla proposta di un incontro reale e responsabile nel qui ed ora dell’esperienza. Perls definisce questa posizione esistenziale come un “vuoto fertile”. Vuoto di aspettative e di progetti, di ricordi e pregiudizi. Fertile d’intuizioni e di atti creativi, in cui l’intellettualizzazione segua l’esperienza e non la preceda. Concetti molto simili a quelli descritti nella tradizione Zen, di presenza piena nel qui ed ora, di contatto assoluto con la realtà dell’esistente, di vuoto senza carattere e senza io. La posizione umana del terapeuta gestaltico in azione è dunque il riferimento, la bussola, da cui scaturiscono le intuizioni operative necessarie e contingenti, che non sono tecniche, benché ne abbiano l’apparenza, perché non scaturiscono da idee o da valutazioni. L’unica vera tecnica risiede, infatti, nella capacità di permanenza nella posizione creativa, la stessa in cui ogni musicista che compone, si sente suonato dalla musica e non la suona, è tecnico senza seguire una tecnica, ha mani pensanti, ma mente vuota: è creativo. Così, in un lavoro gestaltico ben condotto, come in una danza che si ripete ogni volta, alla posizione esistenziale del terapeuta corrisponderà un’analoga esperienza nel soggetto che con lui interagisce. Entrambi sperimentano, alla fine, le proprie inevitabili esistenze, ma anche il recupero delle potenzialità alienate nelle fantasie. Una onesta, responsabile accettazione di sé e degli altri, in un mondo tornato, nel momento dell’incontro, libero e fecondo di possibilità reali.

La Gestalt non è dunque una delle tante teorie psicologiche da cui derivare una cura per pretese disfunzioni. Essa, nel suo profondo e per vocazione, non sostiene alcun modello di sanità a cui contrapporre delle patologie. La sua è un’attitudine pratica, un modo di essere e di vivere nel pieno contatto con la realtà, nella presenza responsabile di sé, nell’ora dell’azione. L’unica cura che la Gestalt offre è quella di una relazione istantanea vera da proporre e imporre all’altro, per il tempo che essa dura. Nient’altro, ma niente di meno. Al contrario di discipline che nascono per essere concettualizzate e la cui prassi parla a e vuole risposte dall’intelletto, la Gestalt, trasferita in concetti, perde la sua “differenza” e la sua “vocazione”. La Gestalt è dunque un fiore delicato: psicoterapia, ma anche pratica di vita, esperienza della coscienza, training alla creatività, via di evoluzione del potenziale umano. La sua trasmissione richiede attenzione, cura, disciplina, oltre che strumenti e metodiche non usuali. Non si tratta di trasferire tecniche o di apprendere teorie, ma di eliminare gli impedimenti che ostacolano la creatività. Non aggiunge nozioni, dettami, regole, schemi, ma li sottrae alla mente, per lasciarla sgombra e aperta al contatto presente con quel che c’è. In questo processo, dunque, qualsiasi teorizzazione sistematica che tenti di spiegare ciò che andrebbe prima vissuto, può essere addirittura di ostacolo per l’evoluzione di una mente che voglia comprendere e che rischierebbe, invece, solo di capire. Cioè, di accontentarsi del gioco dei concetti e dei paragoni tra idee, senza cogliere le differenze che qualificano invece l’esperienza reale.

 

 

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