Mimmo Ciavarelli

La Gestalt e il suo tempo

 

Verso la metà del secolo scorso, la Gestalt therapy fu uno dei tanti approcci che la nascente psicologia umanistica andava sviluppando. Il clima di controcultura degli anni ‘50 e ‘60 riprendeva, portandole a compimento, istanze e inquietudini sociali e culturali già presenti agli inizi del secolo e declinandole con fermenti nuovi e con nascenti contaminazioni culturali. Nel campo della psicologia, la terza via umanistica incarnò queste spinte, sancendo con forza un’appartenenza, ancor prima che una distinzione. Appartenenza a una cultura di rinnovato umanesimo, universale e capace di coniugare le istanze di liberazione interiore con quelle sociali: una riappropriazione, in chiave umana, della scienza, quanto della politica. I grandi movimenti di contestazione, il pensiero alternativo, le filosofie fenomenologiche ed esistenziali, le rivoluzioni artistiche, influenzarono generazioni di psicologi, spingendoli a osare, con le loro idee e le loro prassi, oltre limiti convenzionali. Alcuni rappresentarono più un elemento di critica volta ad aprire la psicoanalisi al sociale, come Erich Fromm o Karen Horney. Altri cominciarono a produrre vere e proprie nuove prassi: da Wilhelm Reich, col suo approccio corporeo, a Carl Rogers con la sua terapia centrata sul cliente e i suoi gruppi d’incontro, a Carl A. Whitacher e Thomas P. Malone con il loro approccio simbolico esistenziale, a Rollo May, a Virginia Satir e tanti altri grandi interpreti di una maestria ormai svincolata da un canone non più riconosciuto come univoco. Si crearono così approcci nuovi di psicoterapia, molto spesso legati a singole persone e alla loro capacità di interpretare le nuove esigenze sociali. Tra questi grandi interpreti, enorme impressione destò, verso la fine degli anni 60, in California, Friedrich Salomon Perls, detto Fritz. Si tratta di un vecchio terapeuta di origine tedesca, all’epoca settantenne, che nei pochi ultimi anni della sua vita, sviluppa un modo di far terapia, così particolare, che conquista dapprima i giovani e poi i media americani. Giunge così a una notorietà breve, quanto intensa, giacché di lì a sette anni scomparirà, lasciando stuoli di ammiratori e di allievi, orfani del loro riferimento vivente. Il motivo di tanto improvviso e intenso successo fu senz’altro legato al clima culturale cui mi riferivo, fatto d’idee e sensibilità comuni a tanti sperimentatori dell’epoca; ma anche, e soprattutto, allo spessore umano particolarissimo che ha informato direttamente il suo metodo di lavoro, al punto da rendere difficile separarlo dal suo modo d’essere, se non a patto di una riduzione e di uno svilimento della sua opera. Certo, questa caratteristica di grande simbiosi, tra i nuovi approcci e le personalità dei loro interpreti, fu una frequente costante in quel tempo: nel senso che tutti loro preferirono l’efficacia pratica e il contatto esistenziale, rispetto alla sistematizzazione teorica. Non che il loro pensiero fosse povero di novità o di profondità, ma fu sempre subordinato più all’efficacia, che alla speculazione.  Quindi, in linea con la frammentazione del pensiero, presente nella cultura dell’epoca, anche la riflessione psicologica abbandonò, con loro, i luoghi della teorizzazione sistematica, in nome di una prassi più attiva e un’esperienza più concreta. Il sapere divenne sempre più un “saper fare”, e la prassi terapeutica fu sempre più tecnica ed esperienziale: le capacità e attitudini personali assunsero sempre più importanza, rispetto alle dimensioni intellettuali e speculative. La psicoterapia divenne un campo di efficacia, dove si confrontavano capacità e, come tale, era giudicata e apprezzata. La nuova frontiera americana imponeva le sue leggi e consuetudini alla vecchia Europa e accanto al comportamentismo (la seconda via della psicologia, nata in opposizione alla teoretica psicoanalitica), anche l’esistenzialismo psicologico nascente (che andava tracciando in quegli anni la sua terza via) aggiunse alle sue radici umanistiche, la pragmatica lezione del saper fare. Tuttavia, con la Gestalt, che rappresentò l’espressione più radicale di questa terza via, l’esistenzialismo psicologico si spinse ancor più oltre, aggiungendo al tecnico saper fare, la cifra umana del saper essere: quella cifra che rappresentò il vero elemento di novità che s’impose alla prassi terapeutica.

 

 

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