Mimmo Ciavarelli

La Gestalt come filosofia incarnata

 

Chi ha conosciuto Fritz Perls negli anni della maturità e la sua Gestalt, ne ha ammirata soprattutto la feconda prassi. Tuttavia, e spesso senza saperlo, ha goduto anche dell’implicita filosofia incarnata nei sapienti gesti di arte terapeutica a cui era giunto il vecchio Maestro. Questa simbiosi tra tecnica, presenza e pensiero, una sorta di filosofia agita e provocata o di azione filosofica, di cui la Gestalt si fa artefice, appare come il definitivo superamento della diade teoria e prassi, che da sempre ha caratterizzato gli approcci terapeutici: da un lato uno schema teorico, soprattutto interpretativo e diagnostico; e dall’altro, un insieme di tecniche a esso coerente e indirizzato alla cura. Al suo posto, è promossa una filosofia dell’ovvio, sganciata da modelli di normalità e con vocazione pratica allo sviluppo del potenziale umano, piuttosto che al suo riadattamento: una visione esistenziale che vede proprio nel desiderio di cura dell’uomo il principale elemento di sofferenza, di tortura e di sequestro permanente di buona parte dell’energia vitale e creativa; oltre che di deresponsabilizzazione per “quello che è”, in nome di quel che “vorrebbe o dovrebbe essere”. Con la Gestalt si emancipa la “differenza” dalla “devianza” con cui la identificava una cultura della psicoterapia votata alla cura della sofferenza, piuttosto che al suo sviluppo. Con essa fiorisce una pratica filosofica, senza un preciso apparato di tecniche, né un esplicito sistema di pensiero, ma con una robusta presenza umana nell’atteggiamento e nelle sue espressioni attuative. Nella Gestalt si realizza così l’integrazione tra prassi e pensiero, dove quello che sembra mancare alla prassi si colma nel pensiero e questo, a sua volta, e in maniera indistinguibile, si prolunga e si completa nella sua attualizzazione concreta. Questa è la cifra gestaltica del saper essere.

 

 

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