Mimmo Ciavarelli

Il linguaggio della Gestalt

 

Parlare di Gestalt significa tradirla, così come capirla significa fraintenderla: occorre saperlo. Dunque il gestaltista evita ogni spiegazione completa, ogni chiarimento, sebbene appaia paradossale che il tacere esprima più dell’argomentare. Ma, quel che sembra un paradosso per il pensiero è un’ovvietà per la realtà indistinguibile, intrecciata e fondamentalmente unitaria, delle tre dimensioni, insite in ciò di cui ci occupiamo. Qualunque esaustiva trattazione della Gestalt, separata dall’esperienza che la attua, ne inficia la comprensione, perché la visione gestaltica si riveste di atteggiamento per mostrarsi e rivela la sua realtà nella prassi. Parlare di Gestalt richiede, quindi, la contemporaneità della presenza di pensiero, atteggiamento e prassi. Come trasferire tutto questo in un linguaggio? Certamente, si potrebbe tenere presente che ogni concetto, scritto o pronunciato, va declinato e completato in queste tre dimensioni compresenti e contemporanee; ma, purtroppo, né la parola, né la scrittura cui la psicologia ci ha abituato, può fornire l’esperienza di questa simultanea presenza. Sarebbe come cercare di evincere l’esperienza del volo da una descrizione delle strutture anatomiche di un uccello. Analogamente, alcuni dei concetti che hanno imposto la visione gestaltica come una novità nel panorama psicologico, come il “qui e ora”, la “consapevolezza”, “l’auto appoggio”, il “divieni quel che sei”, l’alternarsi di “figura e sfondo” nel contatto, la profonda “unitarietà dei conflitti” e tanti altri, se immaginiamo di volerli descrivere e trattare con la profondità che meritano, li dovremmo contemporaneamente vedere, atteggiati e provocati da un’esperienza. Solo allora passeremmo dal farci capire, al farci comprendere; e, per la Gestalt, l’unico capire è comprendere: il resto sarebbe solo fraintendimento, falso capire, intellettualismo distanziante, riduzionismo intellettuale. Lo stesso vecchio Fritz, negli ultimi anni, divenne sempre più restio a spiegazioni, teorizzazioni, concettualizzazioni della sua visione, affidandosi a linguaggi contaminati, molto diversi da quelli “tecnici”. Ne fu prova il suo ultimo libro - “In and out the garbage pail” (Dentro e fuori il secchio dell’immondizia): un misto di poesia, pensieri sparsi, brandelli di autoterapia, aforismi, racconti, auto confessioni, paradossi, ironia – che sancì il definitivo strappo con la cultura delle “teorie”. Il suo scritto segnò, infatti, il ritorno alla filosofia pratica delle antiche scuole di pensiero, nelle quali i maestri subordinarono sempre la parola alle esigenze di una trasmissione che, simultaneamente, doveva incarnarla e valicarla. Anche allora il linguaggio fu, al contempo, ostacolo e veicolo e assunse forme e funzioni diverse da quello attuale, sviluppando la nobile arte del parlare senza parlare e tacere parlando: del provocare vita con la stessa parola che la uccide, del far nascere fiori dal deserto.

 

 

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